Le primavere arabe del 2011 hanno colto l’amministrazione americana impreparata. L’eredità raccolta dalla presidenza Bush nella politica mediorientale gravitava intorno a spazi geopolitici diversi: il cuore e imbuto della penisola arabica rappresentati dall’Iraq, la periferia est del Medio Oriente “allargato” dove la priorità è stata la stabilizzazione dell’Afghanistan e sullo sfondo l’annosa questione palestinese. Nel 2010, pochi avrebbero immaginato che a sconvolgere gli equilibri regionali in Medio Oriente e, insieme ad essi, i calcoli della politica americana nell’area sarebbero venuti dal Nord Africa. Non stupisce dunque che le reazioni di Washington siano state ambigue, in alcuni casi improvvisate.
Nell’universo composito delle primavere arabe e dei paesi che ne sono stati protagonisti l’Egitto ha un ruolo peculiare e prioritario per gli Stati Uniti. L’Egitto, per quanto sia cambiata la sua influenza regionale rispetto ai tempi di Nasser e Sadat, è il paese più influente nel mondo arabo sotto il profilo strettamente politico. Rimane il paese in grado di determinare un atteggiamento di massima del mondo arabo rispetto alla pace con Israele e rappresenta un laboratorio politico in grado di ispirare i progetti politici di altri paesi arabi. Queste caratteristiche lo hanno posto al centro delle attenzioni americane molto di più di quanto sia successo per gli sconvolgimenti politici in paesi meno influenti (Tunisia, Yemen, Bahrain), politicamente isolati (Libia) o al centro di allineamenti regionali molto più complicati per gli Stati Uniti (Siria).
Sfortunatamente per l’amministrazione Obama, al ruolo di paese più determinante dell’Egitto per la politica mediorientale americana si è accompagnato il maggior dilemma: quello fra stabilità e promozione della democrazia, fra conservazione dello status quo e regime change. Il dilemma si è fatto ancora più impegnativo per Barack Obama, un presidente che ha fatto del suo impegno morale verso il rispetto della volontà popolare – in una prospettiva possibilmente non solo occidentale – uno dei tratti distintivi della sua amministrazione. Nel gennaio 2011 le proteste di piazza Tahrir hanno obbligato il presidente americano a una scelta. Una buona dose di indecisione non è mancata: ancora alla fine di gennaio, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, Obama apprezzava la fine della dittatura in Tunisia ma non citava le proteste egiziane, con gran delusione di coloro che a loro rischio e pericolo riempivano le strade al Cairo. Alcuni colsero addirittura in quel silenzio un abbandono da parte degli Stati Uniti. Nei giorni seguenti Obama e Hillary Clinton hanno sostenuto pubblicamente il loro auspicio per una transizione “ordinata” guidata da Omar Suleiman (vice-presidente nominato da Mubarak). Nelle settimane seguenti, l’amministrazione americana ha scommesso invece sulle forze di opposizione al presidente egiziano, “abbandonando” di fatto il vecchio alleato – creando qualche attrito con gli altri due alleati storici regionali, Israele e Arabia Saudita. Era noto allora che i Fratelli Musulmani avrebbero giocato un ruolo determinante nell’Egitto post-Mubarak. Era difficile prevedere che nel 2012 i Fratelli Musulmani sarebbero arrivati a monopolizzare il nuovo regime, in ogni caso l’amministrazione Obama ha deciso di correre quel rischio.
Il 3 luglio scorso è stato evidente a tutti che quella scommessa era persa. Era del resto difficile immaginare che una minoranza tanto ampia e influente come quella della Fratellanza musulmana potesse accettare di tornare silenziosamente nei sotterranei della vita politica egiziana. Era impossibile immaginarlo dopo che nel 2012 i Fratelli Musulmani sono arrivati al comando del paese. La frattura era destinata presto o tardi a tradursi in conflitto aperto col rischio di gettare il paese nella guerra civile.
Il protagonismo che le forze armate si sono riconquistate con la forza riapre dunque la partita non solo per l’Egitto – a cui spetta con tutta probabilità una lunga fase di instabilità – ma anche per gli Stati Uniti ai quali è richiesta una seconda scommessa, questa volta di segno opposto e forse ancor più indeterminata di quella compiuta nel 2011.