La decisione russa di incrementare il proprio sostegno militare al regime di Bashar al-Assad, già nell’aria da parecchi giorni, merita alcune osservazioni.
Nel 2011 e all'inizio del 2012, quando i protestatari erano ancora disarmati o quasi, sembrava che con una spinta poco più consistente sarebbe stato possibile far cadere Bashar al Assad, allora però gli Stati Uniti e i suoi alleati esitarono ad aiutarli concretamente, rafforzando tale atteggiamento inoltre quando cominciarono ad affluire in Siria nuclei estremisti e cellule del terrore che si opponevano ad Assad, malgrado le insistenze dei paesi arabi e della Turchia in favore di iniziative volte a frenare la furia distruttiva delle forze armate del regime.
Nel 2013, quando fu accertato l'uso dei gas da parte del regime, e con ciò il superamento della famosa 'linea rossa' che Obama aveva tracciato come fattore giustificativo di un attacco militare per debilitare o addirittura scalzare il presidente siriano, tutto si fermò all’ultimo minuto. Obama aveva preferito soprassedere e accettare l'alternativa proposta da Putin di un accordo sulla distruzione degli arsenali chimici in Siria. Di fatto, ciò permise ad Assad di sottrarsi da una punizione che avrebbe potuto risultargli fatale, e poté ‘riprendere fiato’, mentre Obama perse credibilità.
Putin non nascose la sua soddisfazione e anzi ribadì il suo sostegno ad Assad nella guerra ingaggiata dalle cosiddette forze del terrorismo (nel cui novero sono compresi anche gli oppositori della prima ora di Assad). A indurlo a queste considerazioni era anche la crescita delle perplessità di paesi arabi e Turchia sulla linea di condotta – incerta e sostanzialmente omissiva – degli USA e degli alleati occidentali. E lo confermava di mese in mese, nella convinzione che né Obama né i suoi alleati sarebbero mai stati (né sarebbero ora) pronti ad attaccare militarmente Bashar al-Assad, malgrado la loro sempre declamata condanna nei suoi confronti: definito persona indegna di governare e, di conseguenza, di avere una parte nel tanto auspicato processo di transizione, di fatto condannato dall’Occidente, ma solo a parole.
Nelle ultime settimane, e anche a seguito della crescente minaccia di ISIS e di al-Qaida (AL NUSRA), si è registrato un intenso lavorio diplomatico tra Mosca, Washington, Riyadh, Teheran, Ankara e lo stesso Staffan de Mistura (ONU), per trovare un'intesa su un eventuale governo di transizione, in base all’accordo di Ginevra di due anni prima. Secondo alcuni analisti era una soluzione possibile, poiché Mosca sembrava propensa a immaginare un'uscita di scena di Assad, in crescente difficoltà, seppure con certe cautele: di tempi, modalità, e a condizione di salvare il suo regime nel silenzio di Teheran, impegnata nel negoziato sul suo programma nucleare.
Ma anche questo lavorio, come la precedente intesa di Ginevra, è finito sugli scogli del 'ruolo/non ruolo' che Assad avrebbe (o meno) dovuto (o potuto) esercitare in questa ipotetica transizione. Sugli scogli, ma forse non definitivamente.
Mettiamo in conto, tra l'altro, che in questa tragica guerra di tutti contro tutti, con al centro Bashar al-Assad, sono andate crescendo le perplessità sulla coesione e sulle capacità offensive dell'esercito libero siriano, accentuate dalle notizie relative ai risultati fallimentari ottenuti dal costosissimo programma di addestramento di militari siriani condotto dagli americani e dai loro alleati.
Putin, da autocrate e soprattutto da cinico giocatore qual è, si è evidentemente convinto di almeno un paio di cose:
- - che per gli USA e gran parte dei suoi alleati occidentali la minaccia dell'ISIS e di al-Qaida costituisca ormai, nei fatti, una priorità di livello superiore a quella attribuita ad Assad, ma non al punto da essere disposti ad ammetterlo e a regolarsi nei suoi confronti in maniera diversa da quanto fatto finora. Che cioè preferiscano insistere nella tesi del suo 'non ruolo' in un'ipotetica transizione, continuando comunque a essere mal disposti nei confronti di un ipotetico intervento militare diretto di 'regime change', anche alla luce dell'esperienza libica;
- - che Obama e i suoi alleati sono ormai piuttosto scettici sulla capacità offensiva dell'opposizione siriana moderata, decisamente debole nel contesto della galassia anti-Assad, ma nello stesso tempo non sono in grado – almeno per ora – di rafforzarla, né appaiono pronti a rimodulare la decantata strategia di “contenimento e distruzione dell'ISIS ...e di al-Qaida” per renderla visibilmente vincente.
In buona sostanza, Putin ritiene che nelle condizioni attuali Bashar al-Assad sia a rischio e che per salvarlo – e salvare i suoi interessi di fondo – occorra rafforzare ulteriormente il sostegno militare che gli è stato sempre garantito in via ufficiale, indipendentemente dalla coalizione internazionale anti-ISIS. Anche nella prospettiva di poter tornare al tavolo negoziale da una posizione di maggior forza. Putin è ragionevolmente convinto che né Obama né i suoi alleati siano realmente disposti a rischiare il confronto militare con Mosca (prospettato soprattutto dagli americani).
Del resto, perché dovrebbero rischiare un tale confronto, quando il sostegno russo ad Assad potrebbe costituire un efficace deterrente in questa fase di espansionismo dell’ISIS, ormai pericolosamente vicino a Damasco, e alla minaccia di al-Qaeda (Al Nusra)? Perché rischiarlo quando non lo si è fatto per abbattere Assad o per proteggere l’opposizione?
Certo, in linea di principio non è accettabile per la grande coalizione internazionale che questo sostegno rafforzato possa essere utilizzato da Assad anche contro l’opposizione moderata, ma è una ricaduta che nella spietata logica di Putin potrebbe assecondare il suo disegno strategico complessivo: contrastare l’ISIS che sta sventolando la sua bandiera anche in terra caucasica, ma anche consolidare il suo ruolo in Medio Oriente e mantenere i suoi punti di forza in Siria con un negoziato, in cui il regime di Assad sia parte preminente (se non perfino Assad stesso).
Si tratta di una visione forse troppo ottimistica, ma in questo momento Putin sembra in controllo del banco. E di fatto, i moniti dell’Amministrazione americana – John Kerry ha chiamato due volte in tre giorni il collega russo Sergey Lavrov – non sembrano averlo impressionato più di tanto; lo hanno anzi indotto a lasciar trapelare la sua sfiducia nell’efficacia della strategia della coalizione internazionale anti-ISIS, con buona pace delle riaffiorate velleità anti-ISIS di Londra e Parigi. Tanto meno sembrano averlo impressionato le risposte positive – Ankara si è riservata di valutare caso per caso - date alla richiesta americana di chiusura degli spazi aerei di cui gli russi avrebbero bisogno.
E se Putin bluffasse, lasciando filtrare indiscrezioni mirate a gonfiare a dismisura la portata reale dell’incrementato sostegno militare ad Assad, e si fregasse le mani nell’ascoltare le critiche della candidata Clinton alla politica medio orientale di Obama?
Momento delicato, dunque; ma l'impressione è che USA e alleati si siano lasciati mettere all'angolo; che la prospettiva di un ruolo stabilizzatore di Teheran, fortemente auspicata da Obama (e non solo) nella regione, stenti a trovare conferma sulla dinamica siriana, la prima in termini di calendario. È necessario dunque che una sana dose di realismo politico, che Obama possiede, porti USA e alleati a scelte destinate a scontare il vantaggio tattico di Putin; anche in quella sede negoziale che il Segretario generale delle Nazioni Unite ha ribadito essere l’unica vera e sostenibile via d’uscita.
Sempre che non arrivi prima la temuta “battaglia di Damasco” a dettare l’agenda.