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Il Paese in crisi
Oltre il G20: l'Argentina di Macri sul filo del rasoio
Gilberto Bonalumi
30 novembre 2018

Il 30 novembre e il 1 dicembre si tiene a Buenos Aires il gruppo dei 20 (G20). È il primo di questi summit ospitato in Sudamerica: tra i partecipanti ci sono Emmanuel Marcon, Angela Merkel (al momento trattenuta a Bonn per un guasto all’aereo), Xi Jinping, Justin Trudeau, Michel Temer, e naturalmente Trump e Putin, che come sembra non avranno un colloquio ufficiale. Certa la presenza del nostro Presidente del Consiglio Conte che terrà una bilaterale con il Presidente argentino Macri.

L'Argentina farà di tutto per darsi un rilievo di prestigio, anche se purtroppo questa prestigiosa scadenza internazionale è stata preceduta da una finale calcistica “senza fine”. Due grandi squadre come il River Plate e il Boca Juniors, i “fratelli nemici” di Buenos Aires, hanno trasformato l'evento in una metafora esuberante dell'Argentina contemporanea. La violenza smisurata indotto le autorità a sospendere l'incontro; si cerca ora una nuova data e un nuovo luogo, ma questo non cancella la storia di un disastro. Il football argentino è una emanazione della politica e della società che oggi attraversa un pessimo momento. Entrambe le squadre sono nate nel quartiere della Boca, da immigranti italiani, soprattutto genovesi, che successivamente si sono separati sia fisicamente, sia nei loro modi di essere, continuando però a essere accomunati dai comportamenti dei “Barra brava”, simili agli hooligan europei.

L’Argentina è sempre l'Argentina agli occhi lontani. Moderna, seducente e avanzata nei tempi positivi; menzognera, oscura e contraddittoria quando si distrugge nel discredito della recessione economica nei tempi negativi. Oggi, ancora una volta, è in crisi. Il suo futuro dipende dal riscatto del Fondo Monetario internazionale (FMI), già il secondo dal mese di giugno.

Che cosa è successo in Argentina? E che cosa è successo con Mauricio Macri, applaudito dai più negli ultimi tre anni?

Quando assunse l’incarico il 10 dicembre 2015, alla guida di una coalizione liberale di centro-destra, il presidente argentino fece due promesse: che avrebbe restaurato le regole del mercato e dell’ortodossia finanziaria; e che non avrebbe fatto nessun “ajuste fiscal”, parola che evoca negli argentini i peggiori incubi. Il mondo accolse a braccia aperte questo imprenditore, figlio di italiani, che era stato sindaco di Buenos Aires, presidente del Boca Juniors, e che si impegnava a sconfiggere la corruzione e smontare le disastrose politiche populiste di dodici anni di kirchnerismo. In quel momento la sua popolarità era al 66%, una cifra inusuale per un governo non peronista.

Macri in effetti tenne la rotta per oltre due anni. In pochi mesi pagò il debito ereditato dalla precedente gestione dei coniugi Kirchner, che avevano saldato i conti con il Fondo monetario, ma rimborsarono solo il 30% del debito complessivo verso i creditori internazionali; aprì l’economia alle importazioni, che il precedente governo aveva reso impossibili con ostacoli di ogni tipo allo scopo di favorire l’industria nazionale. Fece approvare, anche con il sostegno del peronismo moderato, leggi importanti per la lotta contro la corruzione e il narcotraffico e diede impulso a un ambizioso programma di opere pubbliche. Adottò misure impopolari come l’aumento fino al 100% delle tariffe dei servizi pubblici (acqua, luce, gas, trasporti) che il precedente governo aveva mantenuto artificialmente basse, causando gravi distorsioni al funzionamento dell’economia. Si rivolse agli imprenditori internazionali che affluirono copiosi e investirono milioni di dollari nei buoni del tesoro argentini, attratti dagli alti rendimenti, ma non nell’economia reale.

Tre anni dopo, la stella di Macri non brilla più: la sua popolarità è caduta al 40%, le aspettative sono andate ancora una volta deluse e la fiducia in lui è evaporata. All’inizio dell’inverno australe (giugno) è successo quello che nessuno si aspettava e si è addensata sull’economia argentina una “tempesta perfetta”. L’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti e l’apprezzamento del dollaro hanno provocato la fuga dei capitali dai mercati emergenti e i paesi più vulnerabili e esposti come l’Argentina si sono trovati da un giorno all’altro con le spalle al muro. I dubbi sulle capacità dell’Argentina di far fronte ai propri obblighi, in un momento in cui il rapporto deficit/PIL era schizzato al 2,6%, hanno accelerato la crisi finanziaria. Di fronte alla paura di un nuovo collasso gli argentini, come è accaduto altre volte, si sono buttati a comprare dollari accelerando in questo modo la svalutazione del peso (la moneta nazionale). La “corrida cambiaria” ha costretto la Banca centrale argentina a usare le riserve per sostenere la moneta e aumentare il tasso di interesse al tasso mostruoso del 60%. Ciò nonostante il peso si è svalutato del il 50% dall’inizio dell’anno (ci volevano 18 pesos a fine 2017 per 1 dollaro oggi ce ne vogliono 38). Se la moneta vale meno cresce l’inflazione, che dal 25% si è avvicinata a settembre al 40%. Se sale l’inflazione, il credito cade e si paralizza il consumo e l’economia va in recessione (il PIL nel 2018 sarà del -2,6%).

Il meccanismo della “tempesta perfetta”, una volta innescato, è difficile da fermare. Mentre i mercati si sperticavano in elogi per Macri, nello stesso tempo speculavano sul peso per ottenere i più alti rendimenti possibili, contribuendo alla sua svalutazione. Per evitare che chi aveva risparmi in pesos li trasformasse in dollari, il governo è stato costretto a pagare tassi di interesse sempre più alti. In pochi mesi il debito estero dell’Argentina è cresciuto di 90 miliardi di dollari. La situazione si è fatta insostenibile e  il governo Macri si è trovato davanti al rischio di un nuovo default. Per uscire dall’angolo si è rivolto al Fondo monetario internazionale (FMI) per negoziare un prestito di 50 miliardi di dollari, scaglionato in 3 anni. Una mossa che è costata cara a Macri, perché il FMI evoca negli argentini ricordi tragici come la crisi del 2001-02, il default, il “corallito”, la distruzione dei risparmi di un’intera generazione e che il presidente ha pagato con proteste di piazza e due scioperi generali.

La trattativa con il Fondo, condotta dal ministro delle Finanza Nicolas Dujovne, è stata rapida e ha portato in poche settimane all’accordo, soprattutto per la buona disposizione di Stati Uniti, Germania e Francia. Ma nonostante ciò i mercati non si sono calmati e la corrida cambiaria ha ripreso la sua corsa. In un solo giorno (il 30 agosto 2018) il peso ha perso il 16% del suo valore e la Banca centrale è stata costretta ad alzare il tasso di interesse al 60%. In settembre, in coincidenza con l’Assemblea generale dell’ONU, Macri è stato costretto a chiedere un prestito supplementare di 7 miliardi al FMI e l’anticipo di 24 miliardi da erogare nel 2019 negoziati personalmente con Christine Lagarde, direttrice generale del FMI.

In cambio, l’Argentina si è impegnata a mettere in atto una severa manovra di aggiustamento che prevede per il 2019 deficit zero, aumento delle imposte del 10% sulle esportazioni agricole, tagli drastici alla spesa pubblica per 10,6 miliardi di dollari (che colpiranno trasporti, energia, opere pubbliche, casa) e ai costi della politica con la riduzione dei ministeri da 23 a 11 e altre misure di austerità. Il tutto nella prospettiva che il PIL nel 2019 risalirà la china con una crescita del 3%, l’inflazione scenderà al 20% e la situazione del cambio si stabilizzerà. Queste misure, contenute nella Legge di bilancio, sono state approvate nei giorni scorsi da un ramo del Congresso anche con il voto del peronismo moderato.

Queste traversie economiche che incidono sulla vita delle persone stranamente non hanno avuto grosse ripercussioni sul piano politico. Nonostante il gradimento di Mauricio Macri sia sceso al 30%, gli analisti sono concordi nel ritenere che concluderà il mandato fino alle elezioni dell’ottobre 2019 e quindi sarà il primo presidente non peronista a portarlo a termine (cosa che non è riuscita neanche al radicale Raúl Alfonsín, il primo presidente dopo il ritorno della democrazia nel 1982). E c’è anche chi azzarda che se le previsioni di crescita e di stabilizzazione, validate dal FMI, si avvereranno, Macri può sperare anche nella rielezione.

La politica è anche questione di fortuna e, mentre la maggior parte della gestione dei Kirchner ha avuto luogo nel super ciclo delle materie prime, quando Macri arrivò al potere la festa degli alti prezzi delle commodity si era già conclusa.

Ma c’è di più: oggi l'Argentina soffre gli effetti della peggiore siccità degli ultimi sessant’anni, e questo compromette le sue esportazioni agricole e della carne. A questo si aggiunge la recessione brasiliana e l'incremento dei prezzi del petrolio. L'aumento dei tassi da parte della Federal Reserve ha ulteriormente complicato le cose. Il fatto che le monete di molti paesi emergenti siano stati colpite da questa ultima misura, non è una consolazione. Deve però servire per contestualizzare la dimensione dell'attuale congiuntura argentina.

Il peronismo è in una crisi drammatica, frantumato in due blocchi contrapposti e ormai divisi. Il blocco populista con Cristina Kirchner che, nonostante gli scandali e i sei processi in cui è imputata, conserva la lealtà di buona parte della sua base elettorale e può contare su uno share di voti intorno al 30%. Negli ultimi mesi la sua posizione processuale si è aggravata, in seguito alla pubblicazione dei “cuadernos de la coima” (“quaderni della corruzione” in cui l’autista del braccio destro dell’ex ministro De Vido ha annotato nei dettagli tutte le dazioni in dollari alla famiglia Kirchner, a ministri e funzionari del governo da parte di imprenditori del settore delle opere pubbliche, in cambio di appalti) e rischia di finire in carcere se il Senato di cui fa parte le toglie l’immunità. Naturalmente lei si professa perseguitata politica ed  è intenzionata a competere contro Macri alle elezioni presidenziali.

L’altro blocco è decisamente contro il “populismo cleptocratico” di Kirchner e Co.  e comprende varie figure moderate e dialoganti come Sergio Massa, ex rivale di Daniel Scioli nelle primarie del peronismo per eleggere il candidato alle presidenziali del 2015; Miguel Pichetto, capo gruppo peronista al Congresso dei deputati che ha votato molte leggi del governo Macri fra cui la legge di bilancio per il 2019; e Juan Manuel Urtubey, governatore della provincia di Salta che appare il più accreditato a essere il candidato di questo settore del peronismo, il cui peso elettorale è al momento scarso.

Nel caso in cui questi due blocchi si presentassero separati, è probabile che le aspirazioni di Macri per un secondo mandato possano concretizzarsi. Ma fare previsione oggi è non solo aleatorio: è impossibile perché l’Argentina è immersa nella crisi fino al collo e l’uscita è ancora tutta da scrivere.

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AUTORI

Gilberto Bonalumi
Senior Advisor, ISPI Latin America Programme

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