L'intreccio di dichiarazioni che ha preceduto la ricorrenza del 24 aprile ha contribuito una volta di più a chiarire la natura e la portata della vertenza legata al riconoscimento del genocidio armeno. La dimensione politica e diplomatica della vertenza ha cioè chiaramente travalicato la sua essenza storica, tanto che si guardi a essa da un'angolatura di politica interna a Turchia e Armenia, quanto da una più ampia prospettiva legata alle relazioni internazionali dei due attori.
Appare dunque ingenuo - o pretestuoso, se si vuole - ritenere che la questione possa essere risolta da una commissione congiunta di storici, come tradizionalmente proposto dalle autorità turche. Per le stesse ragioni appare tuttavia altrettanto ingenuo ritenere che Ankara possa riconoscere la natura genocidiale dei fatti successivi all'aprile 1915 in risposta alle pressioni esercitate dall'esterno e al di fuori di un chiaro e più ampio accordo sulle possibili conseguenze del riconoscimento stesso. Finché le "spinte verso la riconciliazione" turco-armena insisteranno su questo livello appare dunque altamente improbabile che possano avere successo. Al contrario, e come già Hrant Dink aveva denunciato, esse rischiano piuttosto di appesantire il già grave fardello storico e di favorire un'ulteriore spirale di polarizzazioni.
Fuorviante, d'altra parte, è ritenere che la vertenza sul genocidio sia relegata o relegabile al piano bilaterale delle relazioni tra Ankara e Yerevan. Sebbene rivesta un'importanza centrale sul percorso che conduce alla riconciliazione dei due popoli e alla normalizzazione delle relazioni tra i due stati, la spinosa vertenza è infatti solo uno degli aspetti della più ampia questione turco-armena. Una questione talmente radicata nella dimensione regionale caucasica, da apparire non più risolvibile muovendo da un'iniziativa bilaterale. È altamente improbabile, cioè, che si possa avanzare significativamente sul piano della normalizzazione delle relazioni turco-armene al di fuori di concreti passi in avanti verso la soluzione del conflitto armeno-azerbaigiano per il controllo dell'Alto Karabakh – dal quale d'altra parte era dipesa nel 1993 la decisione turca di chiusura delle frontiere.
Le dinamiche che hanno condotto al fallimento dei Protocolli di Zurigo del 2009 - a oggi il tentativo più avanzato di normalizzazione effettuato da Ankara e Yerevan - hanno chiarito questa dinamica in maniera limpida. Hanno chiarito, cioè, che l'Azerbaigian non può essere escluso da alcun negoziato che abbia velleità di successo. Prima ancora che le difficoltà dei due governi a far digerire ai rispettivi parlamenti ed elettorati le ragioni di un inevitabile compromesso, è stata difatti la risoluta reazione di Baku all'esclusione da un negoziato che toccava direttamente i propri interessi nazionali a determinare, di fatto, la prematura interruzione del processo di normalizzazione.
La vicenda dei Protocolli ha evidenziato un'altra dinamica passibile di avere importanti ricadute sulla sorte della vertenza turco-armena. Essa ha restituito l'immagine di un'alleanza, quella turco-azerbaigiana, poggiata su solidi interessi che trascendono nettamente la narrativa della comunanza etno-linguistica. E, al contempo, di un'alleanza molto più bilanciata che in passato, all'interno della quale Baku beneficia di un crescente potere negoziale, costruito grazie a un accorta ed efficace strategia di politica energetica e di investimenti esteri. Formulata già nel corso degli anni Novanta, la considerazione di una politica caucasica turca "prigioniera" delle relazioni con l'Azerbaigian non è una novità. Pur tuttavia i vincoli alla libertà d'azione di Ankara generati dall'alleanza con Baku sono oggi molto più stringenti che in passato.
La sorte dei Protocolli di Zurigo ha dimostrato, dunque, che non può esserci soluzione alla questione turco-armena che non sia concordata con l'Azerbaigian. Al contempo, e con più significative conseguenze di lungo periodo, essa ha inoltre dimostrato che la Turchia oggi è di fatto diventata un pilastro imprescindibile della strategia d'isolamento dell'Armenia perseguita da Baku. Di una strategia che, stante la dimostrata impossibilità di addivenire a una soluzione negoziata del nodo del Karabakh, punta oggi a capitalizzare sull'esclusione di Yerevan dai principali progetti infrastrutturali e di cooperazione caucasici, approfondendo le già disastrose conseguenze della chiusura delle frontiere orientali e occidentali del paese.
Favorire il processo di riconciliazione e normalizzazione delle relazioni turco-armene – e giungere, con esso, a una visione condivisa dei fatti successivi al 1915 – significa dunque tenere nella giusta considerazione la dimensione politico-diplomatica e quella regionale della frattura tra Ankara e Yerevan. Prescindere da esse rischia, al contrario, di approfondire tale frattura, favorendo una “spirale d'insicurezza” regionale dalla quale nessuno degli attori coinvolti – dalla Turchia all'Armenia, dall'Azerbaigian all'Unione europea – ha da guadagnare.