Se il palcoscenico internazionale fosse un parco di divertimenti, l’immagine che meglio si presterebbe a rappresentare le relazioni tra Iran e Pakistan sarebbe quella di un ottovolante: alti e bassi, in continuo mutamento. L’Iran che nell’agosto 1947 fu il primo paese a riconoscere ufficialmente il Dominion del Pakistan all’indomani della sua nascita era un Iran profondamente diverso da quello odierno. Era l’Iran di Mohammad Reza Pahlavi, shahanshah di Persia sedutosi solo sei anni prima sul Trono del Pavone al posto del padre Reza Khan – detronizzato dagli alleati nel 1941 perché accusato di simpatie naziste. Era quell’Iran «isola di stabilità in una delle aree più tormentate del mondo», come lo aveva definito – ironia della sorte – quel Jimmy Carter che proprio a Teheran, e precisamente nel compound dell’ambasciata statunitense, avrebbe lasciato le speranze di essere eletto per un secondo mandato nel 1980. Era soprattutto quell’Iran che – insieme alla semper fidelis Arabia Saudita – rappresentava il bastione anticomunista filo-occidentale in Medio Oriente. A condividere il ruolo di colonna portante dell’architettura del containment, di là dalla linea Goldsmith tracciata in epoca coloniale dall’allora glorioso impero britannico per dividere Persia e Impero delle Indie, vi era Islamabad, capitale di un paese appena nato e già con un carico assai gravoso sulle spalle, rappresentato dal legame a doppio filo ai patti di contenimento anti-Urss.
Con tali nemici – e amici – comuni, l’amicizia tra Iran e Pakistan sembrava un dato assai naturale: suggellata ufficialmente nel 1950 con la firma a Teheran di un Trattato di amicizia, la relazione tra i due paesi trovava principale giustificazione nella creazione di un fronte comune da contrapporre al fronte panarabo e terzomondista guidato da Nasser che comprendeva, con grande cruccio del Pakistan, l’India di Nehru. Tale amicizia aveva radici antiche: la cultura persiana era arrivata in Pakistan secoli prima insieme alle tribù Qizilbash (conosciute anche come “teste rosse”, dal colore del copricapo indossato dai loro membri), le stesse che nel 1501, dopo la conquista islamica della Persia, portarono lo sciismo in Iran dando avvio all’epoca Safavide.
Cristallizzato dalle dinamiche della guerra fredda, l’idillio tra Teheran e Islamabad arrivò a un primo punto di prova nel 1979, anno cruciale per la ridefinizione degli equilibri regionali. A Teheran, l’ayatollah Khomeini compattava il malcontento verso lo shah e guidava una rivoluzione che portava all’instaurarsi di una Repubblica Islamica. A Kabul, la paranoia bipolare spingeva Mosca a invadere la neonata Repubblica democratica di Afghanistan e a sostituire Hafizullah Amin con il tagiko Babrak Karmal, sottraendo così, dopo più di due secoli, il monopolio del potere politico ai pashtun. In risposta a questi due avvenimenti, iniziava il sostegno statunitense alla guerra santa dei Mujaheddin, i “santi guerrieri” impegnati nella lotta al “regime dei comunisti atei senza Dio”. Washington, animata dalla triplice motivazione della volontà di rivalsa dalla disfatta subita in Vietnam nel 1975, dell’anticomunismo e della necessità di rimpiazzare l’Iran con un nuovo alleato, coinvolgeva nell’impresa Islamabad.
Anche in Pakistan, però, qualcosa era cambiato. Nel settembre 1978 aveva inizio la dittatura militare del generale Muhammad Zia ul-Haq (“fonte della verità”), mentre nell’aprile 1979 veniva eseguita la condanna a morte di Zulfiqar Ali Bhutto, accusato di aver avuto un ruolo nell’omicidio di un oppositore politico. Nel decennio in cui Zia ul-Haq è al potere (1978-1988), il settore militare pakistano si rafforza in maniera spropositata, usufruendo della profondità strategica data dall’Afghanistan e dell’ingente flusso di risorse garantito dal proprio status ufficiale di aiutante degli Usa contro l’Urss in Afghanistan. È precisamente in questo periodo che il Pakistan dà una delle prime prove della propria apparente schizofrenia in politica estera – dettata in realtà dall’estrema frammentazione interna. Interessata più al flusso di denaro e armi che riceve da Washington che all’effettivo respingimento dell’avanzata comunista, Islamabad utilizza queste risorse per il proprio vero obiettivo: il rafforzamento a discapito della nemica di sempre, l’India. E che la vicinanza agli Stati Uniti fosse un matrimonio d’interesse più che una vera comunità d’intenti è rappresentato dal fatto che Zia ul-Haq scelse di appoggiare l’Iran nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, fornendogli parte dei missili stinger che avrebbe dovuto destinare – per conto dello “zio Sam” – ai Mujaheddin afghani.
È nel 1989 che le strade dei due paesi iniziano a divergere: mentre in Iran, con la morte di Khomeini, si chiude il decennio rivoluzionario e si apre un periodo segnato da un maggiore pragmatismo in politica estera – necessario alla ricostruzione di un paese isolato da dieci anni di tentativi di esportazione della rivoluzione e provato da otto anni di guerra –, il ritiro sovietico dall’Afghanistan causa il brusco arresto del flusso di risorse da Washington a Islamabad. Con il dilagare di un profondo senso di anti-americanismo, in Pakistan si rafforza il ruolo dei movimenti islamisti. Mentre l’Iran si avvicina all’India, il Pakistan di Benazir Bhutto (figlia di Zulfiqar) appoggia i guerriglieri Taliban (“studenti”) nella guerra civile afghana. Questi guerrieri, giovani pashtun reclutati nei campi nomadi del Pakistan, istruiti e sfamati nella madrase al confine tra India e Pakistan grazie al finanziamento dell’Arabia Saudita wahhabita, vengono letteralmente gettati da Islamabad in Afghanistan per farne un proprio satellite e creare un asse integralista sunnita Ryadh-Kabul-Islamabad. Nell’Afghanistan in guerra con se stesso, Teheran, insieme a Russia e India, sostiene invece le minoranze uzbeka, tagika e hazara, mentre gli Usa – fino al 1999 – continuano a sostenere i talebani, sebbene fosse chiaro che il paese stesse diventando la centrale dell’islamismo radicale.
Arriva l’11 settembre. La guerra torna in Afghanistan, nome in codice “Enduring freedom”. Il generale Musharraf – alla guida del Pakistan dal 1999 – diventa l’uomo moderato amico dell’Occidente: impegnandosi a fare piazza pulita dei santuari qaedisti sorti nelle aree tribali lungo il poroso confine AfPak, viene ricompensato con ingente liquidità. L’Iran, in un primo momento favorevole al colpo inferto ai talebani, si ritrova ben presto circondato da Stati Uniti o loro alleati, sperimentando dunque un senso di accerchiamento e di “solitudine strategica”, rinforzati dall’essere stato collocato da Bush Jr nel famoso “asse del male” che lasciava presagire un ipotetico impegno statunitense per il regime change a Teheran. La caduta del regime talebano a Kabul e l’instaurazione del governo Karzai (pashtun) dopo che la mediazione iraniana era stata fondamentale per convincere il tagiko Rabbani a fare un passo indietro, sembrano avere aperto un nuovo spazio di collaborazione tra Teheran e Islamabad. Nel dicembre 2002 un uomo di stato iraniano – il presidente Khatami – rimette piede a Islamabad dopo dieci anni di gelo diplomatico.
Ciononostante, alcuni punti di frizione rimangono a complicare le relazioni di buon vicinato tra Teheran e Islamabad. Un primo punto problematico è rappresentato dal triangolo Iran-Pakistan-Stati Uniti. Se Teheran non vede di buon occhio il legame tra Islamabad e Washington, così come Washington non vede di buon occhio il legame tra Teheran e Islamabad, dovrebbe altresì capire che, come fatto notare anni fa da un diplomatico pakistano, «è difficile per un paese mantenere buoni rapporti con Israele, Usa, Arabia Saudita e Iran allo stesso tempo». Allo stesso tempo, però, l’alleanza tra Islamabad e Washington non è da considerarsi come immutabile; l’apparente schizofrenia della politica estera pakistana è un dato ormai acquisito e, considerando anche lo sviluppo di un rinnovato senso di ostilità nei confronti degli Usa tra la popolazione pakistana, dovuto principalmente a ciò che viene percepito come un assoggettamento del governo pakistano alla volontà Usa della lotta ai talebani delle aree tribali, non è da escludere che Islamabad possa decidere, se non di sciogliersi del tutto dall’abbraccio statunitense, di tendere comunque un braccio – dietro la schiena, per ora – all’Iran. È questo quello che sembra stia accadendo con il progetto dell’Iran-Pakistan pipeline, gasdotto che trasportando il gas del giacimento di South Pars nel Golfo Persico a Karachi, crea di fatto un cordone ombelicale che lega a doppio filo Teheran e Islamabad, emancipando i due paesi dalla dipendenza dalle rotte occidentali. Se il Pakistan, come sembra stia accadendo, continuerà nel progetto scegliendo di non dare ascolto ai velati appelli statunitensi – che hanno già portato nel 2008 al ritiro dell’India dal progetto – si creeranno con ogni probabilità i presupposti per un rebalancing verso Oriente tanto dell’Iran – la cui influenza nell’area mediorientale post-primavere arabe è ai minimi storici – quanto del Pakistan, che in questo modo si avvicinerebbe ulteriormente alla Cina, notoriamente affamata di energia e per niente schizzinosa di fronte al tipo di governo con il quale si trova a fare affari.
A complicare le cose, però, sorge un secondo punto problematico che – come si è visto – torna periodicamente a ostacolare i rapporti tra Iran e Pakistan: la questione delle aree d’influenza in Afghanistan. Mentre l’Iran esercita la propria influenza sull’area occidentale di Herat (fino al 1857 territorio persiano), il Pakistan guarda all’Afghanistan meridionale, abitato da popolazioni pashtun. Ecco che allora il riavvicinamento e la stabilizzazione della relazione tra Teheran e Islamabad passa nuovamente dalla stabilizzazione dell’Afghanistan: soprattutto in previsione del ritiro statunitense nel 2014, è necessario che i due paesi si impegnino in un serio sforzo di gestione dell’Afghanistan senza l’obiettivo celato di farne ancora una volta il terreno di una proxy-war.
Il terzo problema è rappresentato dall’eterna irrisolta questione dell’irredentismo balucho, che torna periodicamente a minare le relazioni tra i due stati. L’Iran accusa, infatti, Islamabad – e in particolare i potentissimi servizi segreti – di sostenere finanziariamente, insieme a Stati Uniti e Israele, la guerriglia Jundallah. Insomma, Islamabad starebbe facendo con l’Iran lo stesso doppio gioco che è stata accusata di fare con gli Stati Uniti per la questione Taliban.
Le relazioni Iran-Pakistan sembrano essere dunque arrivate a un nuovo bivio. Mentre dal lato iraniano, nonostante l’appuntamento elettorale del giugno prossimo, non sembrano poter esserci grandi sorprese – principalmente in conseguenza del fatto che, chiunque sarà il prossimo presidente, avverrà un riallineamento sulle posizioni dell’establishment religioso conservatore al cui apice vi è la Guida suprema Khamenei – il presidente del nuovo esecutivo pakistano dovrà cercare invece d’interrompere il pericoloso doppio gioco che il governo pakistano porta avanti da anni su più fronti e impegnarsi nella costruzione di una politica estera più coerente. Obiettivo reso non facile dall’elevata frammentazione etnico-identitaria e dall’importante ruolo giocato tanto dal settore militare statale quanto, soprattutto, dai servizi segreti pakistani, vero e proprio stato nello stato, dotato di una propria agenda politica.
L'ipotesi al momento più probabile, tuttavia, è che il nuovo Pakistan che emergerà dalle urne in questo maggio elettorale si comporti esattamente come il Pakistan degli ultimi 50 anni. Islamabad sa che Washington, quando nel 2014 si ritirerà dall'Afghanistan, riconsegnando le chiavi del paese nelle mani dei talebani, non sarà nella posizione di potersi permettere di perdere anche Islamabad. Nonostante lo “zio Sam” faccia la voce grossa contro il progetto di Iran-Pakistan pipeline, Washington non sembra disporre al momento di una leva politica sufficiente a mettere Islamabad nell’angolo. Ecco che allora, checché ne dicano i suoi stessi diplomatici, il Pakistan potrà continuare a «mantenere buoni rapporti con Israele, Usa, Arabia Saudita e Iran allo stesso tempo». Un'impresa stupefacente che ormai non sorprende più nessuno.