Il primo mandato di Barack Obama, come hanno osservato molti commentatori, non si è distinto per un chiaro impegno in Medio Oriente. Da un lato, l’amministrazione americana negli ultimi anni si è concentrata sul disimpegno – in parte per compensare l’eccesso di zelo e attivismo nella regione dell’amministrazione Bush. Il ritiro dall’Iraq, già in agenda nel 2008, e dall’Afghanistan, dopo un tentativo di surge simile a quello iracheno, sono stati la manifestazione più evidente di una razionalizzazione delle risorse da investire nella macro-regione del Medio Oriente allargato. Dall’altro lato, l’amministrazione Obama ha mantenuto un profilo marcatamente defilato rispetto ai recenti processi di cambiamento nell’area, dalla cosiddetta Primavera araba all’intervento militare in Libia, dove è stato adottato un approccio inconsueto nelle politiche mediorientali di Washington come quello del leading from behind.
Questa riluttanza o cautela nell’impegnarsi frontalmente in Medio Oriente ha le sue giustificazioni. L’agenda Obama negli ultimi quattro anni è stata particolarmente fitta, sia sul piano della politica interna sia su quello internazionale. Non solo, per la risoluzione dei problemi più annosi – su tutti la pace in Palestina – Obama, a torto o a ragione, ha dato l’impressione di aspettare incessantemente condizioni migliori. Sfortunatamente, ora che nel suo secondo mandato non può rimandare oltre alcune decisioni e iniziative, nel suo atteso viaggio in Medio Oriente le condizioni che trova sono per molti versi peggiori rispetto a qualche anno fa.
Anzitutto non è certo che tipo di coalizione di governo Obama troverà in Israele. È prevedibile fin da ora, invece, che nei prossimi mesi il governo israeliano difficilmente poggerà su una coalizione coerente e coesa. Questo avrà degli effetti di indebolimento sulla leadership necessaria – e necessariamente coraggiosa – per affrontare un nuovo negoziato di pace. In secondo luogo, benché questo non rappresenti una novità, la leadership palestinese si presenta divisa. Ma se solo un anno fa si intravedevano i primi timidi passi di un riavvicinamento fra Hamas e Fatah, i recenti bombardamenti nella Striscia di Gaza hanno alimentato sia l’intransigenza di Hamas sia una radicalizzazione della popolazione ed entrambi i fenomeni deteriorano i rapporti fra i due partiti palestinesi.
Al di là della debolezza degli eventuali interlocutori, che diventa di per sé un elemento di debolezza di un negoziato, c’è un terzo problema che non va sottovalutato. Il maggiore ostacolo attuale che è emerso nei rapporti fra Israele e palestinesi è l’annoso problema degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. La politica ostinata da parte di Israele nell’ampliare il numero di insediamenti – osteggiata dagli stessi Stati Uniti – ha portato la situazione a un punto di quasi non-ritorno, per cui lo smantellamento o il trasferimento diventano progressivamente più costosi e, di conseguenza, il negoziato più difficile. Anche da questo punto di vista, dunque, Obama trova una situazione meno favorevole rispetto a qualche anno fa.
Infine, le condizioni a livello regionale sono andate peggiorando negli ultimi mesi. La minaccia iraniana rimane immutata o addirittura va ingrandendosi in linea con i progressi di Teheran sui programmi nucleari. Su questo punto la credibilità di Obama agli occhi di Tel Aviv è andata assottigliandosi. Gli esiti della Primavera araba si sono fatti incerti, in modo particolare in Egitto. I Fratelli musulmani, a patto di godere di un diffuso consenso interno e in condizioni di stabilità politica del paese, sarebbero stati un ottimo mediatore per la pace in Palestina. Ma oggi la crisi interna dell’Egitto e dei Fratelli musulmani toglie a Obama una risorsa importante per la sua politica in Medio Oriente. La crisi siriana nell’ultimo anno ha ulteriormente complicato il quadro regionale, in parte perché induce Israele a rivedere le proprie priorità rispetto al negoziato con i Palestinesi e, in parte, perché crea un’ulteriore frizione fra Tel Aviv e Washington con l’accusa da parte israeliana del debole committment di Obama nella risoluzione delle crisi in Medio Oriente.
A fronte di queste condizioni sfavorevoli non va dimenticato tuttavia che tutte le leve che Washington ha per influenzare la politica israeliana – e in certa misura il fronte palestinese – rimangono intatte. Gli ingenti trasferimenti e aiuti americani a Israele, in modo particolare quelli nel settore militare, rappresentano un fattore di influenza determinante. In molte occasioni, gli Stati Uniti avrebbero potuto minacciare credibilmente l’isolamento diplomatico di Israele. Come i suoi predecessori alla Casa Bianca, Obama ha deciso negli ultimi anni di non ricorrere a tali strumenti per influenzare le politiche israeliane, neanche quando queste ultime erano contrarie alla volontà di Washington. Questo rimane il vero interrogativo sulla politica americana rispetto alla pace in Palestina e alla vigilia del viaggio di Obama ancora non è chiaro quanto gli Stati Uniti siano inclini a fare pesare la loro influenza sugli attori locali, in particolare su Israele.
* Andrea Carati, Università degli Studi di Milano e Ispi Associate Research Fellow.
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