Questo mese si discuterà all’ONU dell’iniziativa dell’ANP per il riconoscimento diplomatico dello stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale. Tuttavia – e al di là del valore simbolico della creazione di un “non-member observer state” palestinese (il pieno riconoscimento come stato membro può essere garantito solo dal Consiglio di Sicurezza) – l’iniziativa rappresenta l’estrema risposta dell’ANP all’inabilità di Obama di far avanzare in modo sostanziale il negoziato israelo-palestinese.
La mossa palestinese colpisce nel segno, creando uno spinoso problema politico e diplomatico per gli Stati Uniti. Obama sarà costretto a dichiarare il suo «no» allo stato palestinese ponendo il veto nel Consiglio di Sicurezza – una mossa il cui impatto negativo sull’opinione pubblica palestinese e araba sarebbe sostanziale – e incassare in ogni caso una sonora sconfitta nell’Assemblea Generale, dove la mozione palestinese dovrebbe riuscire a coagulare la necessaria maggioranza dei due terzi. Accettare la richiesta palestinese, tuttavia, significherebbe sconfessare la linea diplomatica che lega il futuro riconoscimento agli esiti del negoziato e costituirebbe una nuova occasione di scontro con Israele.
La diplomazia americana ha lavorato freneticamente negli ultimi mesi per scongiurare quest’impasse cercando di erodere il fronte pro-riconoscimento attraverso un mix di pressioni e promesse di un nuovo round di negoziati che traducano i principi del discorso in cui Obama, in maggio – e il riferimento in quest’ultimo ai confini del 1967 come base delle trattative. Gli Stati Uniti, tuttavia, sembrano non aver molto da offrire all’ANP in cambio di un’inversione di rotta.
Nonostante svariati ben pubblicizzati vertici internazionali, niente si è mosso a partire dalla conclusione del processo di Oslo, ormai dieci anni fa. Le dichiarazioni eloquenti di Obama non hanno ottenuto nulla – a volte, come nel caso della questione della moratoria sulla costruzione di insediamenti, il governo americano si è mosso in modo goffo e poco coerente – e gli israeliani si sono dimostrati poco propensi a concedere alcunché – salvo invocare un negoziato “senza precondizioni”; a maggio, il più autorevole negoziatore americano, George Mitchell, si è dimesso dal suo incarico di inviato speciale per il Medio Oriente vista l’assenza di qualsiasi risultato.
Si può certamente sperare che una nuova amministrazione Obama – libera dai condizionamenti impliciti in ogni primo mandato presidenziale – possa agire in modo più forte e autorevole. Tuttavia, la patata bollente che ora il presidente degli Stati Uniti tiene in mano viene da lontano, e le amministrazioni americane hanno contribuito non poco a riscaldarla con le loro indecisioni e la fallimentare gestione del negoziato.
Non si vede quali possano essere, oggi, le svolte all’orizzonte: dietro le quinte, la gestione della politica israelo-palestinese americana è tornata interamente nelle mani di Dennis Ross, consigliere presidenziale presso il National Security Council. Ross, tra i più influenti esponenti dell’amministrazione in tema di questioni mediorientali, è stato all’epoca di Clinton il regista del processo di Oslo, contribuendo non poco a modellarlo sui canoni della cosiddetta “ripeness theory” – l’idea che gli Stati Uniti debbano astenersi dal fare pressioni su Israele limitandosi a creare le condizioni ideali per un dialogo autonomo tra le parti.
Quali siano stati finora i risultati di quasi vent’anni di un simile dialogo – così asimmetrico in termini di status e risorse a disposizione delle due parti – è sotto gli occhi di tutti. È probabile che il riconoscimento dello stato palestinese non produca alcuna conseguenza di rilievo (una nuova Intifada potrebbe esplodere in ogni momento anche per molto meno). Tuttavia l’odierna impasse mostra i limiti decennali della politica americana nell’area; limiti che, per essere superati, necessiteranno di qualcosa di più creativo di una nuova e più forte presidenza Obama.