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Reagire alla crisi
Pandemia economica: crescendo pericoloso
Antonio Villafranca
31 luglio 2020

Dallo scoppio della pandemia l’Unione europea ha agito con inattesa celerità nel predisporre misure economiche per arginare l’impatto del COVID-19 e rilanciare la crescita: dagli oltre 1.000 miliardi di euro di acquisti della BCE alla sospensione del patto di stabilità e crescita, dal pacchetto di 500 miliardi di MES, SURE e BEI fino all’accordo da 1.800 miliardi sul bilancio UE 2021-2027 e sul Recovery Fund. Un impegno tanto inevitabile quanto giusto per una crisi economica che si appresta a essere la più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale. Anche a livello globale, il coordinamento sulle misure economiche non si è fatto attendere coinvolgendo dal G20 (con un primo piano di stimoli fiscali di circa 5.000 miliardi) al Fondo Monetario Internazionale (con prestiti accresciuti ai suoi membri e il congelamento dei debiti bilaterali fino a fine anno). Certo, si tratta di primi e parziali interventi se si considera che lo stesso FMI calcola in 2.500 miliardi il fabbisogno finanziario dei paesi in via di sviluppo, ma è stato un bene che ci siano stati.

Via via che la crisi economica si approfondisce, la portata delle misure economiche approntate dagli stati, dall’UE  e a livello internazionale, continua però a aumentare, così come i miliardi necessari.

Si corre così il rischio che una emergenza sanitaria si tramuti in una crisi finanziaria, da qualunque parte del mondo questa abbia inizio. Un rischio che potrebbe tradursi in realtà se non si considera un nesso tanto evidente quanto importante: quello tra la diffusione del virus e le misure economiche necessarie per contrastarla (e limitarne l’impatto in termini di Pil e di perdita di posti di lavoro). Se si migliorasse il coordinamento della risposta sanitaria, a tutti i livelli, le misure economiche per contrastare la crisi sarebbero meno onerose.

 

Il caso americano…

Indicativo il caso americano. Negli USA il coronavirus ha iniziato a colpire a partire dalla fine di marzo, all’inizio soprattutto a New York per poi diffondersi nel Nord-Est e Nord-Ovest del paese. In un contesto politico segnato da duri scontri tra il presidente Trump e vari governatori si è proceduto a un primo, parziale lockdown. La conseguenza in termini di posti di lavoro è stata pesantissima: un lavoratore su cinque (oltre 30 milioni di americani) ha richiesto i sussidi di disoccupazione. Se prima del COVID-19 le persone senza lavoro erano solo il 3%, ad aprile il tasso di disoccupazione è schizzato al 15% circa. Sia la Federal Reserve che il Congresso hanno dovuto approntare enormi misure economiche, la prima attraverso un piano di acquisto di titoli pubblici e privati che ormai si aggira intorno ai 120 miliardi di dollari al mese e il secondo con un pacchetto economico di 3.000 miliardi.

Ma non appena la prima ondata di infezioni ha cominciato a recedere, molti Stati americani hanno iniziato a ridurre (se non ad eliminare del tutto) le misure restrittive. Recentemente però, proprio a causa dell’allentamento delle misure sanitarie e della cronica difficoltà di coordinamento delle stesse tra gli Stati americani, è iniziata una seconda ondata di infezioni soprattutto nel sud del paese. Con il peggioramento del quadro sanitario, puntuali arrivano una nuova contrazione dell’economia e la richiesta di nuove misure. A segnalarne chiaramente l’esigenza è stata la Fed che il 28 luglio ha rimarcato che l’aumento dei positivi sta cancellando i primi segnali di ripresa. Tanto più che secondo gli ultimi dati l’economia americana si è contratta del 9,5% nel secondo trimestre rispetto al precedente e le prospettive per i prossimi mesi si fanno sempre più cupe.

La Fed sta quindi pressando il Congresso perché approvi nuove misure di stimolo dell’economia (su cui però repubblicani e democratici continuano a dividersi) in aggiunta ai 3 trilioni di dollari già approvati. Di fronte al peggioramento delle prospettive economiche nazionali e internazionali, la Fed da parte sua ha appena deciso di estendere il programma di ‘swap’ di dollari con alcune banche centrali (Australia, Brasile, Corea del Sud, Messico, Singapore, Nuova Zelanda, ma anche Svezia e Danimarca) fino alla fine di marzo 2021 nella consapevolezza che la mancanza di dollari potrebbe creare gravi problemi di liquidità, come era stato all’inizio della crisi da COVID-19.

Insomma, il caso americano è emblematico del fatto che se le misure sanitarie sono inadeguate, la crisi peggiora e nuove misure economiche sono necessarie in un pericoloso crescendo che rischia di risultare insostenibile.

 

…e quello europeo

Anche passando al caso europeo il nesso misure sanitarie-misure economiche è del tutto evidente. Basti guardare a tre paesi europei: Germania, Spagna e Svezia. La Spagna era del tutto impreparata al virus e ha pagato un prezzo altissimo non solo in termini economici ma anche di vite umane. Ha quindi dovuto procedere ad attivare misure fortemente restrittive per contrastare la prima ondata di infezioni. La Svezia, dove peraltro il virus si è diffuso molto più lentamente, ha optato per misure ‘soft’ invitando i propri cittadini a comportarsi ‘saggiamente’. La Germania di Angela Merkel, dal canto suo, ha agito più in fretta attraverso tamponi di massa, chiusura delle scuole, proibizioni di eventi di massa ecc. Il risultato di queste diverse risposte sanitarie (anche in termini di tempistica rispetto alla curva dei contagi) si è tradotto in Svezia in 564 morti per milioni di abitanti (un dato vicino a quello spagnolo di 608), mentre in Germania ci si è fermati a 110. Nel momento in cui la prima ondata di virus si è attenuata, i paesi hanno ricominciato a riaprire con il rischio, purtroppo, di una seconda ondata. Basti guardare ai recenti dati sulle infezioni in Spagna (ma anche in altri paesi europei). Le misure economiche adottate dai paesi europei e dall’UE sono senza precedenti, così come senza precedenti è la crisi economica: secondo gli ultimi dati la Germania ha registrato un calo del Pil del 10,9% nel secondo trimestre, il peggior dato di sempre da quando è iniziata la rilevazione dei dati trimestrali nel 1970. In un quadro in peggioramento si fa sempre più concreto il rischio che le misure già prese – per quanto senza precedenti - risultino comunque insufficienti per un pieno recupero del Pil nel corso del 2021.

Ancora una volta la mancanza di una più oculata, efficace e coordinata risposta sul piano sanitario rischia di aggravare la situazione economica e di richiedere interventi monetari e fiscali sempre più ambiziosi. Questo tanto a livello europeo che mondiale. Eppure l’Organizzazione Mondiale della Sanità è sotto attacco dagli USA di Trump (che ritirano i loro finanziamenti) e sul piano europeo non si è riusciti a replicare l’ambizione in campo economico (che ha addirittura permesso uno storico indebitamento comune) anche sul piano del coordinamento delle politiche sanitarie (basti guardare alle recenti misure prese ‘in ordine sparso’ dai paesi membri sulla seconda ondata di infezioni).

È giunto quindi il momento di osservare con maggiore attenzione il nesso economia-pandemia. I costi per l’economia potrebbero essere decisamente più modesti se il coordinamento delle politiche sanitarie fosse molto più stretto ed efficiente. A tutti i livelli. 

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AUTORI

Antonio Villafranca
ISPI

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