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Commentary

Paralisi politica vs crisi di sistema: la Spagna al voto anticipato

28 aprile 2016

La Spagna continua ad addentrarsi in una fase politica incerta e del tutto inedita per le sue tradizioni democratiche. E nemmeno le nuove elezioni, che si terranno il 26 di giugno – salvo imprevedibili e ormai davvero improbabili accordi dell’ultima ora – potrebbero servire a ridare stabilità e a formare un governo. Re Felipe ha dovuto prendere atto che «non esiste alcun candidato che possa essere proposto alla guida del governo» e che per la Spagna è inevitabile «tornare a votare entro i prossimi due mesi».

Negli ultimi quattro mesi, dalle elezioni dello scorso dicembre che hanno consegnato al paese il parlamento più frammentato di sempre, non si è mai stati nemmeno vicini a un accordo. Ha fallito subito il premier uscente, Mariano Rajoy, ammettendo di non avere «alcuna possibilità di trovare una maggioranza» disposta a sostenerlo. Mentre il socialista Pedro Sanchez è riuscito a coinvolgere nella sua alleanza solo Ciudadanos ed ha dovuto accettare il “No” di Podemos. Non ha mai trovato spazio la grande coalizione tra socialisti e popolari, l’unica che avrebbe avuto almeno la maggioranza per governare stabilmente, magari nel nome dell’interesse nazionale. Bocciata senza compromessi, dai partiti e dal re, anche l’ipotesi di un governo di tecnici.

Tutti contro tutti, in una campagna elettorale infinita. E chi nelle ultime settimane attendeva i sondaggi per smuovere le trattative è rimasto spiazzato dalla rigidità degli elettori: gli analisti sono concordi dal voto di fine giugno (ormai certo anche se c’è formalmente tempo fino al 2 maggio per la nascita di un nuovo esecutivo) uscirà un parlamento frammentato quanto quello attuale, con pochi e ininfluenti cambiamenti nella distribuzione dei seggi. Le nuove elezioni potrebbero dunque non sciogliere le incertezze, non produrre una maggioranza chiara.

Tutto però è già cambiato in Spagna. A partire dal 2009, la grave crisi economica, con il crollo del settore immobiliare, il default del sistema bancario nazionale e la disoccupazione sopra il 26%, ha lasciato segni difficili da cancellare nella vita delle famiglie, nonostante la ripresa ormai in atto. Gli scandali di corruzione, dentro i partiti e nelle amministrazioni di ogni livello, hanno alimentato la sfiducia dei cittadini nella politica, almeno in quella dei partiti tradizionali. Lo scontro sull’indipendenza della regione più ricca, la Catalogna, ha fatto nascere nuovi dubbi anche sulla tenuta stessa dello stato.

Alle categorie tradizionali destra e sinistra si sono sommate così la rottura tra vecchio e nuovo, tra la cosiddetta casta e i nuovi movimenti nati dalla protesta di piazza e dall’indignazione della società civile. Il Partito popolare e il Partito socialista che hanno governato la Spagna negli ultimi quarant’anni hanno perso la metà dei loro consensi. La protesta ha scosso per sempre la tranquillità del bipartitismo. Podemos, il movimento guidato da Pablo Iglesias, ha raccolto le rivendicazioni degli indignados e chiede un cambiamento radicale, che partendo da posizioni di sinistra reclama un nuovo modello di sviluppo per la Spagna e per l’Europa. Ciudadanos, il movimento centrista di Albert Rivera, promette una svolta liberista-soft e insiste nella battaglia contro la corruzione e la cattiva amministrazione della cosa pubblica.

L’economia spagnola non sembra ancora sotto pressione. Lo spread, il differenziale di rendimento dei bonos, i titoli di stato spagnoli, rispetto ai bund, non ha segnalato particolari tensioni sui mercati finanziari, restando stabile intorno ai 130 punti base, nonostante l’accresciuto rischio politico. La crescita si è mantenuta solida anche nel primo trimestre del 2016 e probabilmente l’attività economica si modererà solo gradualmente nei prossimi trimestri, con un Pil che dovrebbe comunque chiudere il 2016 in aumento almeno del 2,5%. Il governo di Madrid ha tuttavia ammesso che anche quest’anno non rispetterà gli obiettivi di risanamento definiti con Bruxelles, dopo aver chiuso il 2015 con un deficit di bilancio pari al 5,2% del Pil contro l’atteso 4,2%. E la Commissione europea sarebbe sul punto di prendere provvedimenti, almeno simbolici.

Sono le prime conseguenze di una paralisi politica che potrebbe diventare insostenibile per il paese iberico. E mentre re Felipe sta esortando tutti i partiti a condurre una campagna elettorale responsabile e ad evitare scontri dannosi per la Spagna, i quattro leader – Rajoy e Sanchez come Pablo Iglesias e Albert Rivera – preparano i loro interventi pensando alle urne e a quello che verrà dopo il voto, quando saranno costretti, senza ulteriori possibilità di rinvio, a trovare una coalizione che sostenga un governo. Secondo le analisi degli elettorati, sarà Podemos a chiamarsi fuori da ogni alleanza. Si va probabilmente verso un’intesa tra popolari, socialisti e Ciudadanos a fare da collante. E, dicono le vecchie volpi della politica spagnola, sarà quello il momento della rivincita di Rajoy, dopo le tante porte in faccia di questi mesi. «I molti che, troppo presto, hanno dato Rajoy per finito dovranno ricredersi. Non è stato possibile evitare un nuovo voto – dice una fonte vicina al premier ancora in carica – ma è certo che i popolari guadagneranno peso nel nuovo Parlamento e che gli altri partiti, in uno scenario frammentato che ricalcherà quello attuale, non potranno più fare tante storie e dovranno scendere a patti. Trovando Rajoy lì, ad aspettarli, pronto a trattare, magari da premier».

 

 

Luca Veronese, redazione esteri Il Sole 24 Ore.

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