Il partygate potrebbe costare la premiership a Boris Johnson: le sue scuse non convincono e tra i conservatori si moltiplicano le voci di chi chiede la sua testa.
Quello del 20 maggio 2020 rischia di essere il party di troppo per Boris Johnson e si moltiplicano le pressioni perché il primo ministro inglese si dimetta dall’incarico. Il numero 10 di Downing Street è infatti al centro di uno scandalo che difficilmente, secondo gran parte della stampa, consentirà al premier conservatore di rimanere al suo posto. Quello che i tabloid hanno ribattezzato ‘Partygate’ – l’ennesima festicciola organizzata nella sede del governo durante il primo lockdown – risale al 20 maggio 2020: in quella data lo staff del premier avrebbe invitato via email 100 colleghi a un party in giardino a cui sarebbero intervenuti in 30, compreso lo stesso Johnson e la moglie. Allora il paese era sottoposto a un rigido coprifuoco per far fronte all’aumento dei contagi da coronavirus e le regole in vigore prevedevano che, all’aperto, si potesse incontrare solo una persona non appartenente al proprio nucleo familiare. Ieri Johnson, che in precedenza aveva smentito di essere stato presente all'evento, ha offerto le sue scuse in parlamento durante un umiliante question time. “Voglio scusarmi”, ha detto il premier. “Conosco la rabbia di chi pensa che proprio a Downing Street, dove le regole vengono approvate, quelle stesse regole non siano adeguatamente seguite dalle persone che le fanno”. Johnson ha poi insistito sul fatto di aver pensato che il raduno fosse un evento di lavoro che non violava i regolamenti del governo, ma le sue affermazioni sono state accolte con gelo dai suoi stessi compagni di partito. I conservatori sanno che è la loro credibilità a vacillare agli occhi dell’opinione pubblica e hanno avviato un'indagine interna i cui risultati dovrebbero essere pubblicati entro una settimana. “Il primo ministro ha mentito al parlamento – ha dichiarato un deputato conservatore alla BBC – politicamente parlando, è un morto che cammina”.
Dead man walking?
Anche prima di questo ennesimo scandalo, la popolarità di Johnson era in netto calo tra gli elettori e da giugno ad oggi la percentuale di coloro che affermano che il premier sta facendo “un buon lavoro” è rovinosamente crollata dal 48 al 23%. La cosa più preoccupante è che numeri simili si registrano tra gli elettori tory. E mentre i laburisti affondano il colpo – “le sue giustificazioni sono ridicole, ha sibilato il leader laburista Sir Keir Starmer – dovrebbe fare la sola cosa decente e dimettersi” – il ministro degli Esteri Liz Truss e il vicepremier Dominic Raab accorrono in suo aiuto con timidi tweet di sostegno. “Se le circostanze fossero confermate – ha chiosato dal canto suo il leader dei conservatori scozzesi Douglas Ross – dovrebbe dimettersi”. In un momento caotico di silenzi imbarazzati e distinguo, a nessuno è sfuggita la più che vistosa assenza del ministro delle Finanze Rishi Sunak. Il cancelliere dello scacchiere considerato da molti il più favorito per la successione a Johnson, si è limitato ad osservare che il premier “ha fatto bene a scusarsi” e ha invitato alla “pazienza” fino a quando l’indagine sull’accaduto non sarà completata.
Verso un voto di sfiducia?
Se in seno al partito c’è ancora chi crede che il danno possa essere contenuto, a guidare la fronda contro Johnson sarebbero i deputati del cosiddetto Red wall, quella cintura di comuni di tradizione operaia nel nord dell'Inghilterra, un tempo inespugnabile roccaforte laburista, conquistati dai tory alle scorse elezioni locali. Sono loro ad aver dato il via alla ‘conta’ delle lettere da consegnare al Comitato 1922, la commissione preposta all’elezione del leader del partito. In base al regolamento interno del partito la procedura per il voto di sfiducia viene attivata se almeno il 15% – attualmente 55 deputati – scrive una lettera al suo presidente, Graham Brady. In caso di un voto di fiducia, tutti i parlamentari del partito sarebbero chiamati ad esprimere il proprio sostegno al premier che dovrebbe ottenere almeno 180 voti favorevoli per conservare il suo incarico. Il Comitato, noto anche come “il 22”, mantiene segreto il numero dei parlamentari che hanno inviato lettere, ma i parlamentari sono liberi di rendere pubblica la loro decisione. Nel caso in cui Johnson superasse il voto di fiducia nessuna altra ‘challenge’ alla sua leadership potrebbe essere avanzata nei prossimi 12 mesi.
The party is over?
La sensazione, per chi osserva la politica inglese, è che la misura sia ormai colma. Lo sdegno ha raggiunto l’apice lunedì scorso dopo che sulla stampa è trapelata un'e-mail in cui un assistente del premier incoraggiava gli invitati al garden-party di Downing street a “portarsi da bere”. Il tutto mentre un giorno prima un deputato aveva raccontato in parlamento, tra le lacrime, di come sua suocera era morta da sola durante la pandemia. Anche i giornali normalmente favorevoli si stanno rivoltando contro il primo ministro. Il ‘Daily Mirror’ titola a caratteri cubitali “Disgrace” e sotto la foto del premier scrive: “Prima ha detto che nessuna regola era stata infranta. Poi ha giurato che non sapeva nulla di alcun party. Ora invece ammette che era presente... ma non si era reso conto che era un party. Il nostro Primo Ministro è una completa sciagura”. Non tutti però sono sicuri che il governo abbia i giorni contati. C’è chi pensa – osserva Politico – che la fiammata di indignazione potrebbe esaurirsi presto e, come in altre occasioni, il premier riuscirà a sviare l’attenzione e restare a galla. Altri puntano sul fatto che il partito potrebbe decidere di sostenerlo, ancora una volta, per non rischiare una débacle alle prossime elezioni di maggio. L’unica è aspettare: prima di tutto la conclusione dell'inchiesta ufficiale, dietro alla quale il premier si è trincerato ieri durante l'esame parlamentare. Sarà quello il momento in cui si capirà se per Boris Johnson la festa è davvero finita.
Il commento
Di Marco Varvello, Corrispondente RAI per il Regno Unito
Nella sua biografia “Il fattore Churchill”, Boris Johnson aveva tratteggiato a tinte forti gli aspetti istrionici, umorali, sanguigni dell’ex Premier inglese. Aveva sottolineato come Churchill fosse stato un “maverick”, in fondo sempre un “outsider”, mal tollerato all’interno del partito Conservatore, con i suoi giri di valzer dentro e fuori, compresa l’adesione ai Liberali. Dopo qualche pagina il lettore ha chiaro che Johnson nel profilo del grande leader sta in realtà dipingendo se stesso. Anche lui infatti è sempre stato una mina vagante per i Tories. Appena tollerato nella sua ascesa politica. Diventò capo del partito e Premier solo perché nel 2019 serviva un ariete per sbloccare la Brexit. E così Johnson fu incoronato al posto di Theresa May e vinse a valanga le ennesime elezioni anticipate al grido di “Get Brexit done”. Ma i populisti abili a conquistare l’elettorato spesso non lo sono altrettanto nel governare, tanto più in tempi drammatici come quelli che Johnson ha dovuto affrontare solo pochi mesi dopo il suo arrivo a Downing street. Le foto, i video, le email su feste e brindisi durante i lockdown, fatte trapelare ad orologeria, sono testimonianza ora della sua eccessiva disinvoltura e anche della guerra interna all’apparato di governo (regista Dominic Cummings). Cominciano ad emergere le prime voci dissenzienti da ministri di primo piano, come il Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak. Dicono che dietro molte scelte – ed errori – di Johnson ci sia Lady Macbeth, la sua giovane moglie Carrie. Forse, ma Boris ha dimostrato nella sua carriera di farsi benissimo male anche da solo.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)