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CINA NEL MONDO

America Latina: Pechino c’è ma si fa più discreta

Massimiliano Frenza Maxia
|
Aldo Pigoli
07 ottobre 2022

Nella percezione comune l’America Latina è da duecento anni il “cortile di casa” degli USA. Tale concetto, nato con il presidente James Monroe per il tramite della sua eponima dottrina (1823), venne ribadito da Theodore Roosevelt con il suo corollario alla Dottrina Monroe (1904) e quindi ulteriormente chiarito dallo stesso Roosevelt attraverso la sua raccomandazione per l’esercizio di una diplomazia accompagnata da “parole gentili” ma opportunamente affiancate da un metaforico “grosso bastone” rappresentato, allora, dalle cannoniere.

Di fatto, l’America Latina dal dopo guerra in poi è stata pienamente nella sfera d’influenza economica e politica degli USA, che l’hanno gestita esattamente sotto i dettami indicati dal presidente Roosevelt a inizio secolo. Il continente ha partecipato ad accordi commerciali come il NAFTA e sperimentato anche aspetti più compromettenti come ad esempio il supporto, più o meno palese, dato dagli USA ai regimi dittatoriali di destra in chiave anticomunista.

Gli Stati Uniti non si sono limitati ad offrire assistenza politica ai Paesi latinoamericani ma hanno anche dettato la linea economica, subordinando all’adozione degli schemi dell’economia di mercato, l’elargizione dei finanziamenti. Tale approccio ebbe il suo apice negli anni ’90, epoca del cosiddetto Washington Consensus e delle politiche economiche liberiste ad esso connesse, nonché ai principi democratici di stampo occidentale: liberalizzazione finanziaria, eliminazione dei dazi per le importazioni, ridimensionamento del ruolo dello Stato nelle scelte economiche e libero spazio alle leggi di mercato.

A ciò va aggiunto che, nel corso della seconda parte del XX secolo, la totalità dei Paesi dell’America centrale, dei Caraibi e del Sud America, hanno visto intensificarsi i rapporti economico-commerciali e finanziari con gli USA, assurto a primo partner commerciale di quasi tutti gli Stati dell’area.

Fino ai primi anni del nuovo Millennio tali parametri hanno prevalentemente orientato le scelte di politica economica di molti Paesi. Ad un certo punto, però, qualcosa è cambiato. Le politiche liberiste, continuate sino ai primi anni Dieci del nuovo secolo, hanno finito per impoverire i ceti medi e produrre livelli di sviluppo fortemente squilibrati e diseguaglianze economiche. A ciò ha fatto seguito una fase di disimpegno statunitense, che ha creato uno spazio geoeconomico all’interno del quale si sono progressivamente infilati attori economici cinesi. Nel corso di pochi anni la penetrazione cinese nell’area latinoamericana si è intensificata, anche sfruttando le consuete “armi” geopolitiche del soft-power.

 

Gli anni della penetrazione cinese (2010-2020)

Il secondo decennio del XXI secolo ha visto una crescita della presenza cinese in America Latina che possiamo definire con due aggettivi: profonda e rapida. A confermarlo è un articolo del 2018 apparso sul sito del World Economic Forum (WEF). In esso si legge come, “in soli 10 anni, la Cina [sia] diventata un partner commerciale e un investitore chiave nella regione. La sua presenza è stata avvertita al di là del commercio. La Cina ha iniziato a utilizzare il renminbi in swap per un valore di 70 miliardi di dollari in Argentina, 27 miliardi di dollari in Brasile e, più recentemente, circa 3 miliardi di dollari in Cile.”.

Interessante è la scelta dell’utilizzo del meccanismo dello swap associato al renmimbi. Esso è emerso particolarmente all’indomani della crisi causata dal crack di Lehman Brothers nel settembre 2008, allorché la susseguente crisi di liquidità rese molto difficile per le banche raccogliere denaro a causa di un’estrema avversione al rischio, innescatasi sui tradizionali mercati di raccolta. Con gli accordi swap tra banche centrali, soprattutto Federal Reserve (FED) e Banca Centrale Europea (BCE), i flussi normalmente generati sui tradizionali canali di approvvigionamento di valute sui mercati, vennero garantiti dalle rispettive istituzioni, favorendo un ripristino della stabilità e lavorando molto sull’interscambio dollaro USA/euro. Le autorità di Pechino hanno utilizzato il medesimo meccanismo, approfittando della crisi post-Lehman per far affermare in America Latina la propria moneta, il renmimbi, facendole assumere un ruolo che ovviamente è residuale rispetto a quello del dollaro, ma comunque nuovo e prospetticamente interessante.

Una serie di interessanti report dell’Inter-American Dialogue (Report 2018 e Report 2022), ci offrono uno spaccato puntuale del fenomeno. Gli anni Dieci hanno visto l’avvio del fenomeno, con una crescita degli investimenti non sempre lineare, anche a causa dello scotto causato dalla crisi mondiale del 2008-09, comunque prontamente riassorbita da Pechino, tanto da permetterle già nel 2010 di toccare il picco degli investimenti nella regione (circa 35 miliardi di dollari), tendenza che è poi proseguita nel decennio successivo.

I prestiti sono stati erogati con le medesime modalità usate dalla Cina in Africa e in Asia: China Development Bank (CDB) e China Export-Import Bank (Ex-Im Bank) hanno fornito oltre 150 miliardi di dollari in finanziamenti all’America Latina dal 2005, anno in cui il fenomeno ha iniziato a verificarsi e tali finanziamenti hanno superato per molti Stati chiave della regione i prestiti operati nello stesso periodo dalla Banca Mondiale, dalla Banca Interamericana di Sviluppo (IDB) e dalla Banca di Sviluppo dell'America Latina (Corporación Andina de Fomento (CAF) – Banco de Desarrollo de América Latina).

La gran parte dello sforzo cinese è stato operato verso i principali Paesi della regione, in particolare quelli della CDB. Ex-Im Bank, al contrario, ha spalmato gli interventi su un numero maggiore di Paesi. Venezuela, Brasile, Ecuador e Argentina hanno rappresentato il 91% dei prestiti totali alla regione, con una attenzione superiore verso il Venezuela negli anni Dieci e quindi verso il Brasile nel decennio successivo. Il caso brasiliano è interessante poiché, al di là dell’interscambio, l’intervento cinese è stato fondamentale per il supporto allo sviluppo della Petrobras, la compagnia petrolifera di bandiera, essendo la Cina come noto costantemente alla ricerca di fonti combustibili fossili per alimentare il proprio sviluppo.

Per avere un quadro puntuale degli investimenti cinesi in America Latina è utile fare riferimento al Global Development Policy Center della Boston University che, nella parte dedicata a Caraibi e Sudamerica, offre un’amplissima quantità e qualità di dati, riportati in maniera aggregata nel China-Latin America Finance Databases prodotto  in collaborazione con il già citato Inter-American Dialogue.

 

Figura 1  Finanziamenti erogati ai Paesi latinoamericani da CDB ed Ex-Im Bank

2005-2021, miliardi di dollari

Fonte: China-Latin America Finance Database

 

Su un totale di 138 miliardi di dollari erogati a diciannove Paesi, 120 hanno riguardato investimenti in energia e infrastrutture.

Ai prestiti delle banche di sviluppo cinesi vanno poi sommati quelli erogati dalle banche commerciali della Repubblica popolare, le cosiddette “big five”: Industrial and Commercial Bank of China (ICBC), Bank of China (BOC), China Construction Bank (CCB), Bank of Communications (BoCom) e Agricultural Bank of China (ABC). In questo caso i Paesi coinvolti sono stati solo nove e, fra questi, Argentina e Brasile sono quelli che ne hanno maggiormente beneficiato con rispettivamente 36 e 9 miliardi di dollari, coinvolgendo società attive nei settori dell’energia, delle infrastrutture e dell’estrazione.

 

Il pragmatismo cinese alla prova della corruzione e della malagestione

Brasile. Come precedentemente accennato, Petrobras – la compagnia petrolifera di Stato brasiliana - è stata oggetto di ripetuti finanziamenti cinesi negli anni. Le ragioni sono ovviamente legate alla “fame” di petrolio dell’industria cinese pre-Covid. Le prospettive di partenariato sino-brasiliano sul petrolio erano a inizio millennio molto incoraggianti; tuttavia gli investimenti cinesi hanno dovuto fare i conti con la crisi innestata nel 2014 dall’inchiesta su un ingentissimo riciclaggio di denaro (30 miliardi di reais pari a circa 9,5 miliardi di dollari), denominata Operação Lava Jato, che ha colpito  Petrobras, arrivando a coinvolgere i più alti livelli dell’establishment del Paese, compreso l’allora Presidente della Repubblica, Michel Temer, arrestato nel marzo del 2019.

A seguito di tale inchiesta la società petrolifera ha dovuto affrontare un’importante crisi finanziaria, con effetti significativi anche sulla crescita economica brasiliana. La crisi ha nei fatti rallentato, quasi fino a bloccarla, la capacità dell’azienda di produrre flussi di cassa, mettendo in crisi diversi investimenti. La China National Petroleum Corporation (CNPC), ad esempio, è dovuta intervenire ulteriormente per supportare il completamento di una raffineria a Rio de Janeiro, la cui costruzione, prima di essere interrotta, era già costata alla Petrobras 14 miliardi di dollari.

Nonostante i problemi giudiziari del Paese la Cina, negli anni successivi all’esplodere del problema, ha finanziato il Brasile con cifre importanti nel triennio 2015-17 (rispettivamente 7,5, 6 e 5 miliardi di dollari).

 

Venezuela. Nel caso del Venezuela, così come dettato dal pragmatismo e dalle nuove regole d’ingaggio applicate da Pechino in altre regioni del mondo (si veda la nostra precedente analisi), la Cina ha avviato una riconsiderazione dei suoi prestiti, soprattutto a causa del caos politico emerso nel Paese.

Lo Stato sudamericano ha beneficiato di un ammontare di prestiti ingentissimo nell’ultimo quindicennio: tra gli investimenti delle banche di sviluppo e quelli garantiti dalle banche commerciali, il flusso finanziario cinese verso il Venezuela ha superato i 60 miliardi di dollari, con picchi toccati nel 2010 (20 miliardi) e nel 2013 (10 miliardi). L’ultimo grande prestito è avvenuto nel 2015 (5 miliardi) per poi dimezzarsi l’anno successivo e di fatto azzerarsi per gli anni seguenti. In effetti, dal 2017 in poi le banche politiche cinesi si sono di fatto astenute dal sostenere finanziariamente un Venezuela sempre più travagliato che però, all’inizio degli anni Duemila, poteva apparire a Pechino come modello con cui avviare un rapporto win-win: petrolio e materie prime venezuelane in cambio di supporto geopolitico in chiave anti-statunitense, sulla base dell’ideologia socialista e bolivarista di Hugo Chávez.  

Tuttavia, tale rapporto non è andato come era negli auspici, in particolare dal 2014 quando si verificò un importante crollo del prezzo del petrolio che fece piombare il Venezuela in una profonda crisi economica impedendo, di fatto, il rimborso dei prestiti. Ciò contribuì al già significativo deterioramento delle infrastrutture e quindi del flusso di cassa garantito dalla compagnia petrolifera statale Petroleos de Venezuela SA (PDVSA), che finì in pochi anni per far precipitare la produzione di petrolio del 33%. Ovviamente ad aggravare tale situazione contribuì in maniera sostanziale la non celata politica statunitense orientata a inasprire le sanzioni e a favorire un cambio di potere nel Paese, anche in ottica anti-cinese: nel 2019, Washington fece giungere a Pechino un chiaro segnale di stop di fronte alla sua sempre più evidente presenza strategica in uno dei Paesi caratterizzanti il cosiddetto “cortile di casa” statunitense.

Alla luce di ciò e con il rischio di una diminuzione dei ritorni attesi, nell’agosto 2020 Pechino ha accettato di estendere il periodo di grazia su un prestito di 19 miliardi di dollari scaduto, portandosi a casa alcuni asset venezuelani, quali pozzi di estrazione e quote di società petrolifere, evitando, tuttavia, di imporre dure politiche di ristrutturazione.

 

Ecuador. Interessante è anche il caso rappresentato dall’Ecuador. Dal 2008-2009 in poi le autorità politico-economiche ecuadoregne si sono sempre più legate a Pechino, principalmente attraverso l’export petrolifero, utilizzato come merce di scambio da Quito per garantirsi i prestiti cinesi in momenti di debolezza macroeconomica e rischio di default. Tra il 2013 e il 2014 venne negoziato un accordo petrolifero che permise l’accesso a 2 miliardi di dollari di finanziamenti cinesi, creando un vincolo nei confronti di Pechino che è andato progressivamente crescendo, sia dal punto finanziario che delle relazioni commerciali. L’Ecuador ha beneficiato nel periodo 2005-2021 di prestiti per un valore di 18,2 miliardi di dollari, distribuiti su circa 1,5 miliardi annui fino al 2014 e poi con un picco di 7 miliardi nel 2015. Dell’ammontare totale, ben 5,2 miliardi sono stati destinati al settore energetico, che agisce da “garante” e che permette a compagnie cinesi quali PetroChina Company Limited (PetroChina) o China International United Petroleum & Chemical Co. (UNIPEC) di acquistare quote di produzione petrolifera ecuadoregna a prezzi inferiori alle valutazioni di mercato.

Alla luce di tali impegni e dell’impossibilità di ripagare il debito, dopo negoziati durati mesi, il 19 settembre 2022 il governo del Presidente Guillermo Lasso ha annunciato di aver raggiunto un accordo con il governo cinese per prolungare la scadenza dei prestiti e ridurre i tassi di interesse e l’ammortamento. I termini dell’accordo di ristrutturazione prevedono un percorso di riduzione del debito con le banche cinesi per un valore pari a 1,4 miliardi di dollari fino al 2025, ma escludono compensazioni in termini di asset.

 

Prospettive per il futuro

Le analisi sui flussi di finanziamenti ad opera delle banche d’investimento cinesi CDB e Ex- Im Bank, evidenziano come, dal 2020, non stanno più arrivando prestiti multimiliardari, principalmente garantiti dagli asset in ambito Oil&Gas. Ad influenzare tale dinamica hanno sicuramente contribuito le conseguenze in termini di crisi energetica globale scatenate dall’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022, ma anche un generale ripensamento di una strategia che nei decenni passati ha visto erogare fiumi di denaro che, come evidenziato dalle analisi della professoressa Deborah Brautigam (Johns Hopkins University), sono arrivati  da una pluralità di finanziatori, spesso tra loro non coordinati e senza troppa attenzione alle prospettive legate ai reali profitti e al rientro dei capitali a scadenza.

Al di là della pandemia e delle recenti dinamiche energetiche, il freno all’erogazione di risorse finanziaria da parte cinese è stato causato dalla paura di veder vanificate le prospettive di rientro degli investimenti (il caso Venezuela è probabilmente quello che preoccupa di più), nonché dalla necessità di riorientare verso il territorio nazionale le forze in grado di sostenere la crescita interna: tale prospettiva appare oramai non più rimandabile alla luce delle tensioni internazionali che rischiano di veder ridurre gli introiti legati alle catene del valore cinese su scala globale.

Il flusso di denaro non si è comunque del tutto fermato, anche se non assistiamo più ai mega investimenti del periodo 2005-2015, le banche cinesi stanno comunque sostenendo le attività di proprietà cinese nel subcontinente americano. Stesso dicasi per società locali, che guardano alle risorse economico-finanziarie cinesi coordinandosi con le banche di sviluppo regionali o partecipando a fondi di private equity (come il Fondo di cooperazione Cina-America Latina, istituito nel 2015).

In ultimo, una considerazione legata al tema dei mancati rimborsi e alla più volte evocata “trappola del debito” cinese. A differenza di quanto verificato in Asia e in Africa, in America Latina la Cina non ha intrapreso clamorose azioni contro i Paesi incapaci di rimborsare il loro debito, come testimoniato di recente dal caso ecuadoregno.

Diversamente, le preoccupazioni per il danno d’immagine, un’economia che sta rallentando e il possibile esplodere di una bolla del debito estero, che si andrebbe ad aggiungere alla bolla immobiliare, stanno portando Pechino sempre più di frequente verso azioni volte alla rinegoziazione degli impegni, anche se questo tema sta producendo tensioni all’interno del sistema cinese, dove non tutti sono d’accordo nel rinunciare a significative risorse finanziarie.

Allo stesso modo, Pechino ha probabilmente fiutato il cambiamento nell’aria e il ritorno degli USA nella regione, elemento che consiglia una maggiore prudenza nell’elargizione di nuovi investimenti che potrebbero non rivedere il rimborso, sia a causa della debolezza dei Paesi destinatari sia per le possibili azioni statunitensi volte a destabilizzarli per colpire indirettamente Pechino.

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Geoconomia America Latina Cina
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AUTORI

Massimiliano Frenza Maxia
UNIVERSITÀ ROMA 3
Aldo Pigoli
UNIVERSITÀ CATTOLICA

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