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Commentary

Pechino-Tokyo: le intese economiche aggirano gli “scogli”

24 aprile 2013

L'ultimo screzio tra Cina e Giappone si è consumato il 21 aprile scorso. Al centro delle polemiche è ancora il tempio Yasukuni che ospita le spoglie di 14 eroi di guerra giapponesi che Pechino annovera tra i criminali dell’invasione giapponese consumatasi tra il 1931 e il 1945. Il primo ministro del Paese del Sol Levante – il nazionalista Shinzo Abe, leader del Partito Liberaldemocratico – non si è recato personalmente al tempio, come fece nell’ottobre dello scorso anno quando ancora era capo dell’opposizione, ma ha fatto portare un pino per commemorare le vittime di guerra. Alla visita rituale al tempio Yasukuni avevano comunque partecipato quattro ministri del governo, tra cui il vice primo ministro Taro Aso, e 169 parlamentari, un numero ben più alto del normale. L’evento non è passato inosservato a Pechino: dopo il terremoto che ha colpito la provincia sud-occidentale cinese del Sichuan, il 20 aprile, il governo di Tokyo aveva offerto a Pechino il “massimo supporto” nei soccorsi, ma Pechino ha declinato l’invito giapponese, spiegando che non erano necessari aiuti dall’esterno. Nelle stesse ore, i media statali pubblicavano la notizia dell’arrivo sul luogo del sisma di 198 soccorritori russi.

La visita rituale al tempio Yasukuni dei notabili di Tokyo è l’ultimo capitolo di una tensione costante che attraversa i due paesi dallo scorso mese di settembre, quando il governo nipponico aveva annunciato di volere nazionalizzare le isole Senkaku nel Mare Cinese Orientale, che dalla Cina sono rivendicate con il nome di Diaoyu. Come per le visite al tempio Yasukuni, anche l’amministrazione delle Senkaku/Diaoyu risale a questioni mai risolte tra i due paesi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in avanti. E i due eventi sono strettamente correlati: dopo la visita al tempio Yasukuni, il 23 aprile ben otto motovedette cinesi sono entrate nelle acque territoriali delle isole contese, immediatamente segnalate dalla Guardia Costiera di Tokyo. Il governo di Abe ha minacciato di “espellere con la forza” qualunque cittadino cinese che avesse intenzione di sbarcare sulle Senkaku. La tensione attorno all’arcipelago è alta da mesi: l’annuncio della nazionalizzazione da parte di Tokyo aveva immediatamente provocato lo sdegno cinese: manifestazioni anti-nipponiche si erano susseguite in 72 città per tutto il fine settimana e il martedì seguente, data simbolica per la coincidenza con l’anniversario dell’incidente di Mukden che aveva segnato l’inizio dell’occupazione giapponese della Manciuria, il 18 settembre 1931. L’ambasciata giapponese a Pechino era diventata bersaglio di lanci di oggetti e frutta da parte di decine di migliaia di manifestanti. La presenza di molti pullman nell’area era un segnale che la manifestazione fosse organizzata, ma molti dei manifestanti inneggiarono con striscioni e cartelli a Mao Zedong e criticarono la leadership di Hu Jintao e Wen Jiabao (alle ultime settimane di governo) come leader deboli, incapaci di farsi rispettare.

Da allora si erano susseguite nelle settimane successive le incursioni di navi vedetta cinesi nelle acque territoriali delle isole contese, puntualmente segnalate dalla Marina giapponese. Per due volte, tra dicembre 2012 e gennaio di quest’anno, Tokyo aveva alzato i suoi caccia sopra lo spazio aereo dopo che elicotteri cinesi avevano sorvolato in più di un’occasione lo spazio aereo delle isole contese. Il Giappone – che per la prima volta in undici anni aveva deciso di aumentare del 2% il budget della Difesa – era arrivato a anche minacciare nei primi giorni dell’anno che sarebbero stati sparati colpi di avvertimento qualora si fossero ripetuti episodi del genere. Le incursioni delle motovedette cinesi nelle acque contese non si erano però fermate. All'inizio di febbraio, il ministro della Difesa giapponese, Itsunori Onodera, aveva rivelato in una conferenza stampa che alcuni giorni prima, il 30 gennaio, una fregata militare cinese aveva agganciato nel mirino del suo sistema di puntamento un’unità navale della Marina giapponese. Gli appelli alla calma da parte di Abe non erano serviti a smussare l’atteggiamento risoluto della Cina (assertiveness) che ha continuato (e continua) a rivendicare le Diaoyu come parte integrante del proprio territorio nazionale.

L’importanza che Pechino accorda alla disputa territoriale con il Giappone è segnalata anche dalla scelta di Wang Yi, diplomatico di lungo corso, come ministro degli Esteri cinese. Ambasciatore in Giappone dal 2004 al 2007 – parla fluentemente il giapponese – Wang è diventato ministro degli Esteri nel marzo scorso al termine dei lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo che hanno sancito il ricambio generazionale ai vertici del paese, con Xi Jiping nuovo presidente al posto di Hu Jintao, e Li Keqiang a prendere il posto di primo ministro fino a quel momento occupato da Wen Jiabao. Un segnale che Pechino vuole risolvere la disputa con Tokyo attraverso il dialogo è arrivato a distanza di poche settimane, con la visita, a fine marzo, dell’ex primo ministro Tomiichi Murayama che ai microfoni dell’agenzia di stampa nipponica Kyodo si era detto “molto sollevato” dalla volontà di Pechino di una “pacifica risoluzione” della diatriba che divide i due paesi «visto il danno che potrebbe arrecare a entrambi, considerate le relazioni economiche».  

Le relazioni bilaterali tra la seconda (Cina) e la terza (Giappone) economia del pianeta sono state al centro il mese scorso anche di un dibattito organizzato dalla Japan Business Federation e dalla China-Japan Friendship Association presieduta proprio da Murayama in cui si è discusso dell’importanza degli scambi bilaterali per il settore privato. A fine 2011, la bilancia commerciale tra i due paesi era di 345 miliardi di dollari, con volumi 35 volte superiori a quelli del 1985; gli investimenti diretti esteri giapponesi in Cina ammontavano a 73,8 miliardi di dollari, tredici volte più alti del 1991. Lo scorso anno, però, anche a causa della disputa per le isole contese, le esportazioni giapponesi in Cina erano calate del 10,4%. Nei giorni più caldi della diatriba tra i due paesi, il Ministero del Commercio di Pechino aveva minacciato anche ripercussioni commerciali su Tokyo, qualora il Giappone avesse insistito a considerare l’arcipelago come parte integrante del proprio territorio. La possibilità che tale questione tra i due paesi possa avere ripercussioni economiche è però esclusa da Xu Mei, ricercatrice presso l’Istituto di Studi Giapponesi dell'Accademia di Scienze Sociali cinese, che al The Japan Times dichiara che nessuna grande compagnia cinese ha ritirato capitali dalla Cina e che il paese continuerà a essere, nel prossimo futuro, una base produttiva e un mercato di sbocco per le imprese del Sol Levante.

Ancora più possibilista sulla ricomposizione delle relazioni tra Cina e Giappone è Hu Shuli, direttrice e fondatrice di Caixin, la penna più influente e libera della Cina di oggi che, in un'intervista rilasciata il 18 aprile scorso al quotidiano giapponese Asahi Shimbun, fa il punto sui rapporti sino-giapponesi. «Siccome le dispute territoriali tendono a essere legate alle emozioni in qualsiasi nazione – spiega la giornalista – gli scontri tra Cina e Giappone possono andare avanti senza arrivare a una soluzione per molto tempo. Tuttavia, se il governo e i cittadini fanno uno sforzo, potrà essere possibile contenere la tensione nelle relazioni bilaterali causata dalle dispute territoriali». Per riuscire in questa impresa, spiega la direttrice di Caixin, servono gli scambi culturali. «Se le diversità possono essere comprese, le aspettative reciproche possono abbassarsi, e la tensione diminuire».

* Eugenio Buzzetti è corrispondente di Agi e di AgiChina24 da Pechino;

* Alessandra Spalletta è coordinatrice del portale AgiChina24.

 

Dossier: Giappone: le scommesse di Abe 

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