Uno degli enigmi che più tormenta chi guarda con interesse alla politica iraniana è: «chi comanda veramente nella Repubblica Islamica?». Se, infatti, è ormai chiaro che il presidente della repubblica detiene ben poco potere, e comunque ben entro i margini dello spazio di azione concesso dalla Guida, è un po’ meno chiaro quali siano i limiti all’operato di quest’ultima, l’ayatollah Ali Khamenei. Opinione di chi scrive è che il decisore ultimo sia sì la Guida Suprema, ma che questa non detenga assoluta autonomia e indipendenza nel processo decisionale. Khamenei, prima che Guida, è il guardiano supremo della Repubblica Islamica così come progettata da Khomeini. Il suo primo e principale compito è quello di garantire la tenuta del sistema, assicurare la sopravvivenza della Repubblica Islamica così come progettata da Khomeini. Khamenei deve farlo tenendo ben presente però che l’Iran di oggi non è quello del 1979, che le stesse promesse del khomeinismo si sono col tempo trasformate in frutti avvelenati. Diversi centri di potere sono oggi da accontentare, e non è chiaro quanto potere di controllo abbia Khamenei su questi centri o se piuttosto il processo non sia bidirezionale.
Ma chi è Ali Khamenei? Capire la storia politica dell’attuale Guida Suprema, soprattutto lo snodo fondamentale dell’ascesa al rango di rahbar, le circostanze e le modalità con le quali questa è avvenuta, è essenziale per avere una comprensione più chiara delle modalità con le quali vengono prese le decisioni nell’Iran odierno, quello che qualcuno ha definito «un cartello di ayatollah ultra-radicali e pasdaran arricchiti».
Di origini modeste e pie come tutti i membri dell’élite rivoluzionaria, Ali Khamenei nasce nel 1939 nella città sacra sciita di Mashhad dove, all’età di cinque anni, viene avviato all’educazione religiosa. Trasferitosi successivamente nel centro religioso di Qom, entra in contatto con Ruhollah Khomeini, all’epoca docente del prestigioso seminario. Siamo nei primi anni Sessanta, gli anni della rivoluzione bianca dello shah Reza Pahlavi, gli anni nei quali negli ambienti religiosi, particolarmente danneggiati dalle riforme laicizzanti dello shah, inizia a diffondersi un certo malcontento. È precisamente in questi anni che si forma quella rete di rivoluzionari che contribuirà alla diffusione in patria dei messaggi di Khomeini dall’esilio, e che nel 1979 andrà a occupare i gangli vitali della neonata Repubblica Islamica, formando quel blocco di potere all’apparenza compatto che detiene le chiavi d’accesso a uno dei sistemi più opachi e complessi al mondo.
Ali Khamenei ricoprì per un breve periodo il ruolo di ministro della Difesa e di supervisore del Corpo dei guardiani della rivoluzione, all’epoca impegnato sul fronte iracheno, per poi essere insignito dell’importante carica di leader della preghiera del venerdì a Tehran. Nel 1981, pochi mesi dopo essere rimasto ferito in un attentato a opera dei Mojaheddin-e Khalq (Mko) che gli fece perdere l’uso del braccio destro, diventa presidente della repubblica, andando ad affiancare l’ayatollah Khomeini in un tandem all’epoca del tutto sbilanciato a favore del secondo. L’anno chiave, però, è il 1989. Pochi mesi dopo aver “bevuto l’amaro calice” dell’armistizio con l’Iraq di Saddam, l’ayatollah Khomeini muore. Prima di esalare l’ultimo respiro, e precisamente nell’aprile 1989, dà il proprio assenso a una modifica costituzionale che, oltre ad abolire la figura del primo ministro e a rafforzare quella del presidente, muta i requisiti per accedere alla carica di Guida Suprema. In origine, l’accesso a tale carica era riservato a coloro i quali avessero raggiunto il rango di grande ayatollah, il massimo grado della gerarchia religiosa sciita. La defenestrazione, pochi mesi prima della morte di Khomeini, del grande ayatollah Montazeri, delfino designato, e il fatto che la maggioranza dei grandi ayatollah rimanenti fossero contrari al ribaltamento del principio quietista – e al conseguente coinvolgimento dei religiosi in politica – operato da Khomeini, non lasciava altre alternative che l’allargamento dei requisiti per l’accesso alla carica. Fu quindi possibile per Ali Khamenei, che non disponeva dei requisiti teologici necessari, prendere il posto dell’ayatollah Khomeini. Ma, oltre a non disporre dei requisiti teologici necessari, Khamenei non disponeva né del carisma né dell’autorità del defunto ayatollah. Secondo alcuni, sarebbe stato l’onnipresente Rafsanjani a manovrare nell’ombra per assicurare l’ascesa al rango di Guida Suprema dell’alleato Khamenei.
Per Khamenei, in ogni caso, si apriva la stagione più difficile, a partire dalla quale avrebbe dovuto dare continua dimostrazione di essere all’altezza del ruolo cui era stato improvvisamente promosso. Allo scopo di crearsi una base di sostegno che potesse puntellare la sua fragile posizione di Guida, Khamenei coltivò una rete di “commissari religiosi”. Questi commissari – stimati in un numero tra i 600 e i 2000 – permeano i centri di potere agendo da occhi e orecchie della Guida. Circa 600 di questi commissari operano all’interno dell’Ufficio della Guida Suprema o negli organismi a esso collegati. L’Ufficio della Guida Suprema è presidiato da quattro membri permanenti, religiosi con il rango massimo di ayatollah. Essi sono l’ayatollah Mohammad Golpayegani, Ahmad Mir-Hijazi, l’ayatollah Ali al-Taskhiri e Mahmoud al-Hashimi. Vi sono poi dieci consiglieri speciali che agiscono in campi quali cultura, affari militari, economia, media e comunicazione. Questi consiglieri fungono spesso da “ombra” dei ministri ufficiali, detenendo il vero potere. Ma, oltre a dover continuare ad alimentare questo farraginoso sistema, la Guida deve continuare ad accontentare quegli ambienti della destra conservatrice religiosa che, nei giorni della difficile ascesa al vertice, l’hanno sostenuto dandogli la legittimazione religiosa di cui difettava. Uno degli uomini-chiave in questo senso è l’ayatollah Ahmad Jannati, a capo del Consiglio dei guardiani e ritenuto uno degli esponenti più radicali – e più influenti – della classe di religiosi al potere.
A complicare il quadro, poi, è l’esigenza di non scontentare eccessivamente i vertici militari del Corpo dei guardiani della rivoluzione, che oggi, più che sulla salvaguardia della rivoluzione, vigilano sulla salvaguardia dei propri interessi economici. All’indomani della fine della guerra Iran-Iraq, la Repubblica Islamica si è trovata a dover fare i conti con un numero elevatissimo di militari da reintegrare in qualche modo all’interno della struttura statale. Molti di loro sono andati a occupare i vertici di komiteh (comitati) e bonyad (fondazioni), ovvero quei “carrozzoni” statali nei quali sono stati integrati i beni confiscati allo shah nel periodo rivoluzionario e che da allora dominano la scena economica iraniana.
Ciò che emerge da questo quadro è una scena alquanto sfaccettata, di sicuro più complessa del semplice ritenere la Guida Suprema Ali Khamenei il decisore ultimo e indipendente della politica iraniana.
Insomma, se il presidente Hassan Rouhani è già stato definito, forse prematuramente, “il Gorbaciov iraniano”, per la Repubblica Islamica nel suo complesso sembra valere ancora ciò che Winston Churchill disse proprio a proposito dell’ex Unione Sovietica: «Si tratta di un indovinello, avvolto in un mistero all’interno di un enigma».