Mentre i negoziati sul nucleare tra Iran e i 5+1 proseguono, avvicinandosi alla scadenza del 24 novembre, occorre riflettere sui vantaggi che un avvicinamento all’Iran comporterebbe. Un riallineamento strategico avrebbe, molto probabilmente, ricadute positive in tutta la regione medio-orientale. In Siria favorirebbe il contenimento dell’Isis e di gruppi jihadisti analoghi, che condividono l’odio verso gli sciiti e l’Occidente, con il possibile effetto di restituire l’opposizione anti-Assad alle formazioni politiche dalle quali è nata nel 2011. La pressione di Tehran potrebbe inoltre indurre Assad a introdurre forme di governo maggiormente partecipative e, forse, addirittura a ritirarsi dalla scena. Non è impensabile che l’Iran accetti, e addirittura promuova, un’alternativa ad Assad, così come in Iraq ha rinunciato a Nuri al-Maliki, se avesse ragione di non temere che il nuovo governo fosse controllato da forze anti-iraniane. L’Iran è fondamentale anche per la stabilizzazione in un Iraq sempre più lacerato dalle forze jihadiste e in Afghanistan, dove il disimpegno Nato e il ridimensionamento delle truppe statunitensi rischia di alimentare la guerriglia neo-talibana, che sempre più chiaramente si sta allineando con l’Isis. A patto, naturalmente, che Tehran non conduca in questi paesi una politica settaria, ma sostenga, come ha fatto in Afghanistan dopo il 2001, un processo di unità nazionale e pacificazione. Un riavvicinamento all’Iran potrebbe avere ricadute positive anche in termini di lotta al narcotraffico: è l’Iran il paese che maggiormente, come è noto, si è impegnato negli ultimi decenni nelle azioni di contrasto al traffico di oppio che dall’Afghanistan arriva nel resto del mondo, e in primis in Europa.
Infine, un riavvicinamento all’Iran potrebbe avere ricadute economiche positive sull’Europa: la crisi in Libia, dove la produzione petrolifera si è notevolmente ridotta ed è, al momento, molto oscillante, e la crisi diplomatica con la Russia, che potrebbe comportare l’interruzione delle esportazioni di Gazprom verso i clienti europei, mettono un punto interrogativo sul nostro futuro energetico. L’Italia, in particolare, è fortemente dipendente dalle forniture di gas provenienti dalla Russia e da quelle di petrolio provenienti dall’Algeria e dalla Libia. Al di là dell’instabilità interna alla Libia, i crescenti consumi interni in Nord Africa - dovuti a molteplici fattori tra i quali l’incremento demografico, l’urbanizzazione, e l’elettrificazione delle aree rurali – assorbiranno in futuro una quota crescente della produzione locale di idrocarburi. In questo scenario, e in una fase in cui le risorse energetiche alternative non sono (ancora) in grado di coprire il nostro fabbisogno, le enormi risorse petrolifere e di gas dell’Iran diventano più che mai appetibili.
Indubbiamente un avvicinamento all’Iran potrebbe sfociare in una radicalizzazione delle strategie jihadiste in vari teatri. Per sconfiggere l’Isis, e per stabilizzare i fronti medio-orientali più incandescenti – Afghanistan, Iraq, Siria, ma anche Libano, Pakistan e Yemen - ci vorrebbe idealmente uno sforzo comune da parte dell’Arabia Saudita e dell’Iran. In fondo, l’Isis costituisce una minaccia per entrambi: per l’Iran, la destabilizzazione dei paesi limitrofi comporterebbe, tra le altre cose, flussi difficilmente gestibili di rifugiati, comprometterebbe i suoi investimenti e interessi commerciali e sarebbe una minaccia esistenziale per decine di milioni di sciiti; ma l’Isis e gruppi analoghi, nonostante il sostegno che hanno ricevuto e forse ricevono ancora dal Golfo, hanno una forte componente anti-sistemica che, saldandosi alle critiche interne all’Arabia Saudita alla politica filo-occidentale e alla corruzione dei regnanti, potrebbe destabilizzare fatalmente lo status quo. Senza contare che l’Isis non fa mistero della sua ambizione di occupare i luoghi santi dell’Islam, una meta ambita per motivi che sono facilmente comprensibili: la “protezione” di Mecca e Medina darebbe un’aurea di sacralità a qualsiasi sedicente califfo.
Elisa Giunchi, Associate Senior Research Fellow dell’ISPI e docente di Storia e istituzioni dei paesi islamici, Facoltà di Scienze Politi-che, Università degli Studi di Milano.