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America Latina

Perù: la marcia su Lima

18 gennaio 2023

Migliaia di manifestanti sfidano lo stato di emergenza e puntano a Lima. La presidente Dina Boluarte: “Non mi dimetto”.

Sale la tensione in Perù dove migliaia di persone sono attese a Lima per un’imponente marcia per le strade della capitale, dopo settimane di proteste costate la vita ad almeno 50 persone. La marcia si terrà domani nonostante lo stato di emergenza decretato per un mese in diverse regioni del paese nel tentativo di sedare i disordini, mentre i manifestanti chiedono le dimissioni dell’attuale presidente Dina Boluarte, una nuova Costituzione e lo svolgersi di elezioni immediate. La mobilitazione è stata per questo soprannominata la 'Marcia de los 4 Suyos' (i quattro punti cardinali secondo la tradizione Inca), sulla scia di un’altra famosa marcia che nel 2000 assestò un colpo al regime di destra di Alberto Fujimori. La crisi nel paese andino è deflagrata il 7 dicembre scorso quando l’ex presidente Pedro Castilloè stato arrestato per aver tentato di sciogliere il Congresso che a sua volta aveva votato per destituirlo e metterlo sotto accusa per quello che i legislatori hanno definito un tentativo di golpe istituzionale. Dopo la rimozione di Castillo – l’ultimo colpo di scena in un lungo scontro aperto tra l’esecutivo e il parlamento – la sua vicepresidente Dina Boluarte ha rilevato l’incarico diventando il sesto presidente del Perù in cinque anni.

La geografia del malcontento?

Oltre al malessere e alla rabbia, ad alimentare le proteste è un sentimento di profonda frustrazione nei confronti della giovane democrazia del Perù, che secondo i manifestanti non è riuscita a colmare il divario sociale ed economico tra Lima e le aree rurali del paese. “Molti di loro – spiega il NewYorkTimes – pensano che in questi anni lo stato abbia aiutato una piccola élite ad accumulare potere e ricchezza ma abbia portato in cambio ben pochi benefici a tutti gli altri peruviani”. Una dicotomia ben evidenziata dalla geografia delle proteste, diffuse a livello nazionale, ma concentrate soprattutto nelle regioni del sud agricolo ed emarginato. Una zona del paese per lo più abitata dalle popolazioni indigene e dai campesinos per secoli in contrasto con l’élite della capitale, più meticcia e più bianca, che domina la politica nazionale. In queste regioni, dove si concentra la ricchezza di riserve di rame e gas, l’aspettativa di vita e la mortalità infantile seguono trend in antitesi a quelli di Lima, dove c’è una migliore qualità della vita. E questo nonostante il sud ospiti alcune delle destinazioni turistiche più importanti del paese, come Cusco e la vicina cittadella Inca di Machu Picchu, da cui oltre 2000 turisti hanno dovuto essere evacuati all'inizio di gennaio a causa delle proteste. “Vogliamo che chi siede in parlamento ascolti quello che abbiamo da dire. Andiamo a Lima per far sentire la nostra voce”, dice un manifestante intervistato dal canale tv dell’agenzia Prensa Latina.

Castillo vittima delle élite?

È in questo contesto di profonde fratture sociali, dopo anni di crisi politiche e durante una pandemia che ha colpito il Perù più duramente di qualsiasi altro paese al mondo, che gli elettori peruviani hanno eletto nel 2021 Pedro Castillo. Castillo, è un ex insegnante, outsider della politica – è il secondo presidente nato fuori Lima eletto dal 1956 – e leader sindacale di un povero villaggio andino, che non aveva legami con l’establishment politico. Proprio per questo i suoi sostenitori nutrivano grandi speranze che potesse portare quei miglioramenti invocati dai peruviani poveri, rurali e indigeni, dimenticati dalla politica ed esclusi dallo sviluppo. Una volta in carica, tuttavia, il suo mandato è stato scandito da scandali di corruzione, lotte intestine, cinque cambi di premier e un braccio di ferro sfociato presto in uno scontro aperto con il Parlamento. Anche se nella sua parabola hanno pesato l’inesperienza politica e gli eclatanti casi di malversazione e nepotismo, Castillo ha mantenuto il sostegno dei suoi elettori che lo vedono come una vittima delle élite e di un parlamento ampiamente impopolare e corrotto. Al tempo stesso, non si può far a meno di sottolineare che durante il suo breve mandato l’ex presidente ha fatto ben poco per tutelare i diritti degli indigeni e delle fasce più povere della popolazione e, promuovendo un autogolpe, ha offerto ai partiti di destra l’occasione perfetta per eliminarlo dalla scena politica.

Que se vayan todos?

A cinque settimane dall’inizio delle proteste, nonostante tre ministri si siano già dimessi in polemica con la violenta repressione delle proteste e l’indagine preliminare della Procura generale del Perù sull’operato di Dina Boluarte per l’ipotesi del reato di genocidio, omicidio colposo e lesioni gravi, la presidente non ha alcuna intenzione di andarsene. Anzi in un messaggio alla nazione ha espresso “rammarico e scuse” per la morte di peruviani durante le proteste ma al tempo stesso ha assicurato che non cederà a un “gruppo minuscolo di settori estremisti che incendiano e distruggono il paese”. E mentre sulla stampa locale sono raccontati nomi e storie delle vittime della repressione, anche giovanissime, i grandi quotidiani stanno perlopiù ignorando la rivolta, alimentando la sensazione di uno iato tra l’élite urbana e i poveri delle zone rurali. “Que se vayan todos” continua ad essere lo slogan che risuona più spesso durante le proteste: la maggior parte dei peruviani infatti “vede l’intera classe politica come parte del problema e come i responsabili dell’estrema polarizzazione tra le istituzioni” spiega al Financial Times Verónica Ayala, docente di scienze politiche presso la Pontificia Università Cattolica del Perù, e aggiunge: “Non credo che elezioni anticipate o immediate risolverebbero la crisi politica in cui ci troviamo”.

 

***

A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications.

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