Una settimana, tre Presidenti della Repubblica. Questo è il risultato della turbolenta settimana iniziata con l’impeachment al presidente Martín Vizcarra il 9 di novembre e seguita da asprissimi scontri tra polizia e manifestanti che, nel giro di cinque giorni e con due giovani morti tra le file dei manifestanti, hanno portato alla rinuncia del successore di Vizcarra, Manuel Merino de Lama, e aperto le porte a una situazione di compromesso nella persona di Francisco Sagasti Hochhausler.
Difatti, la spirale della rabbia della piazza ha avuto la sua scintilla il 9 novembre, allorquando 105 congressisti su 130, facendo riferimento all’articolo 113 comma 2 della Costituzione peruviana, hanno decretato la «incapacità morale o fisica permanente» del presidente Martín Alberto Vizcarra Cornejo per un presunto caso di corruzione riferito a quando era ancora governatore della regione di Moquegua. Le accuse si concentrano infatti sulla concessione di appalti al cosiddetto “Club de la Construcción”, nome dato al consorzio di grandi imprese edili, peruviane e straniere, che si dedicavano ad acquisire permessi per la costruzione di grandi infrastrutture, molti dei quali concessi proprio dal Ministero dei Trasporti, presieduto sempre da Vizcarra tra il giugno del 2016 e il maggio 2017. Le indagini riguardanti il presidente si sono concentrate in particolar modo su due presunte tangenti per un totale di 2 milioni e mezzo di Nuevos Soles, poco più di mezzo milione di euro, pagate dalle imprese ICCGSA-Incot e Obrainsa all’allora governatore Vizcarra.
Una destituzione opaca
La destituzione di Vizcarra segue di poche settimane un primo tentativo da parte dei congressisti della Camera unica del Perù di esautorare il presidente, il quale subentrò al suo predecessore, Pedro Pablo Kuczynski Godard, proprio in seguito a un altro tentativo di impeachment andato però fallito a causa delle dimissioni di Kuczynski. Il rapporto tra il presidente Vizcarra e buona parte dei congressisti si è andato via via deteriorando in seguito allo scontro Presidente-Congresso che va avanti oramai da quasi due anni e che ha portato, nel dicembre 2018, allo scioglimento anticipato del Congresso da parte del Presidente. In un primo momento il problema sembrava risiedere nella vecchia maggioranza fujimorista in Congresso che aveva impedito per ben due volte a Vizcarra di nominare sei giudici della Corte costituzionale. Ma lo scioglimento anticipato del Congresso nel settembre 2019 e la perdita della maggioranza parlamentare da parte dei fujimoristi, dopo le elezioni del 26 gennaio 2020, non hanno abbassato il livello di scontro tra legislativo ed esecutivo, soprattutto in seguito alla grande campagna messa in piedi dal presidente Vizcarra per i quattro quesiti del referendum anti-corruzione del dicembre 2018, in cui il Presidente ha ottenuto la riforma della giustizia, il regolamento dei finanziamenti ai partiti politici, l’impossibilità di rielezione immediata per i congressisti e la bocciatura della riforma bicamerale del Paese.
Senza tali premesse difficilmente i congressisti peruviani avrebbero fatto leva su quelle che, ancora oggi, sembrano essere solo delle accuse forse pretestuose, e oltre tutto basandosi su di una disposizione costituzionale di per sé molto opaca perché, mancando un perimetro normativo ben chiaro che definisca l’effettiva «incapacità morale o fisica permanente del presidente», lascia la sua completa e definitiva interpretazione e applicazione al potere legislativo che, a seconda dei casi e dei numeri all’interno dell’aula, può decretare con discreta “facilità” se un presidente può rimanere in carica oppure no. A riprova di ciò è interessante considerare quanto riportato dall’analista politico e professore universitario peruviano, Alonso Cárdenas, secondo cui il Perù è il Paese nel quale «se si vuole destituire il sindaco di Lima servono poco più di un milione di firme, se invece si vuole destituire un presidente servono solamente 87 voti nel Congresso». Un punto chiave su cui basare tale ragionamento è che la stessa norma venne usata nel novembre del 2000 per destituire il fuggitivo presidente ancora in carica Alberto Fujimori Inomoto sul quale, a differenza di Vizcarra, pendevano chiari capi d’accusa come la corruzione e crimini contro l’umanità.
La parentesi Merino
Perciò l’uso “politico” dell’articolo 113 comma 2, basato praticamente solo su frammenti di dichiarazioni filtrate alla stampa durante presunte testimonianze davanti ai giudici, ha generato immediatamente ondate di protesta in tutto il Paese che in larga parte – secondo IPSOS il 78% dei peruviani avrebbe desiderato che Vizcarra terminasse il suo mandato nel 2021 – non ha accettato quello che è stato definito persino da La República, uno dei più importanti quotidiani peruviani, come «golpe de estado» da parte del Congresso e ha respinto totalmente la nomina a presidente di Manuel Merino de Lama. La piazza infatti ha tacciato i congressisti come «corrotti» e «usurpatori», basandosi anche sul periodo non proprio florido che sta attraversando la politica peruviana oramai sommersa da scandali di corruzione e soprattutto sulla diffusa rete di indagini che riguarda una buona metà dei facenti parte del Congresso peruviano. Di qui, Vizcarra è a chiedersi perché debba pagare lui solo lo scotto, quando «è di pubblico dominio che vi sono sessantotto congressisti indagati da parte del Ministero Pubblico». «Dovrebbero allora dimettersi in blocco anche loro?».
Da parte sua Vizcarra al momento della conferenza stampa di addio fatta insieme al suo Esecutivo ha ribadito che, sebbene «non esista una prova affidabile, né tantomeno una prova di flagranza del reato […] che mi si pretendeimputare», egli non prenderà in considerazione nessuna azione legale e si ritirerà senza creare ulteriori problemi poiché «non desidero in nessun modo che il mio spirito di servizio per il popolo venga tacciato come una volontà basata sull’esercitare il potere». Inoltre, l’ex-Presidente ha ribadito più volte che queste accuse strumentalizzate dal Congresso non sono nient’altro che una presunta «vendetta» da parte di alcuni affaristi del Club de la Construcción, i quali si erano scagliati contro di lui, reo di aver lottato duramente contro la corruzione sin da quando mise piede alla Casa de Pizarro. Sebbene Vizcarra abbia evitato di soffiare sul fuoco della crisi politica in atto, il suo gabinetto aveva presentato circa un mese e mezzo fa un quesito di costituzionalità al Tribunal Constitucional sulla facoltà del Congresso di destituire un capo di Stato per «incapacità morale e permanente», che è stato fortemente appoggiato anche da un comunicato dell’Organizzazione degli Stati Americani.
Nel frattempo, la breve parentesi Merino si esauriva nel giro di cinque giorni a causa del moltiplicarsi delle protestedi un Paese già messo in ginocchio dagli scandali di corruzione, che oramai riguardano tutti i presidenti succedutisi nel corso dell’ultimo ventennio, dalle drammatiche cifre di morti e contagiati da COVID-19 e soprattutto dai morti sopraggiunti dai duri scontri tra manifestanti e polizia. Queste ultime hanno portato all’uccisione di due giovani manifestanti e alla sparizione di una quarantina di persone, portando velocemente alle dimissioni di dodici ministri dell’Esecutivo appena nominato da Merino e specialmente al ritiro del sostegno della maggior parte dei membri del Congresso favorevoli alla destituzione di Vizcarra, come il partito di Keiko Fujimori o il Frente Amplio.
La soluzione Sagasti
La rinuncia di Merino e la nomina di Francisco Sagasti come presidente sembrerebbero aver placato le più accese proteste che il Perù abbia visto dalla fine del regime di Fujimori nel 2000. Il tentativo di mettere un freno a quella che poteva divenire una crisi politico-istituzionale senza fine è arrivato dal Partido Morado, unica forza politica contraria all’impeachment contro Vizcarra, nelle ore immediatamente successive alla rinuncia di Merino. Tale formazione politica, avente all’interno del Congresso solo 9 rappresentanti, ha deciso di rimediare al vuoto di potere di Merino proponendo Francisco Sagasti, figura di spicco del partito, come presidente del Congresso.
Sagasti, ingegnere di 76 anni e con alle spalle un passato alla Banca Mondiale, ha ribadito in maniera molto sobria la sua volontà di «restituire la fiducia» al Paese, portando a termine quel che resta del mandato presidenziale sino al 28 luglio 2021, giorno del bicentenario de la independencia, con il fine ultimo di far risalire la china a quella politica che per troppi anni «è stata distruttiva e poco inclusiva» e dare finalmente «la fiducia e la speranza» a quelle masse che in questi giorni hanno chiesto giustizia. Inoltre, proprio per ribadire il significato del proprio no al voto di impeachment al suo predecessore, Sagasti ha ricordato come «i meccanismi di controllo che sono necessari in ogni Stato di diritto non dovrebbero pregiudicare la stabilità del Paese e neppure trascinarlo in una spirale di crisi politico-istituzionale». Il governo che andrà costituendosi sotto la sua egida sarà «partitico ma plurale, per rispondere alla necessità che la politica sia vista come un punto di incontro e non più come qualcosa di lontano» e avrà come obiettivi quello di garantire l’assoluta trasparenza delle elezioni presidenziali di aprile 2021, continuare la lotta contro la corruzione «da qualunque parte venga» e affrontare la grave crisi sanitaria senza peggiorare ulteriormente quella economica.
Una situazione sanitaria ed economica complessa
Quest’ultima, infatti, sebbene la risposta dei mercati all’avvento di Sagasti sia stata più che positiva, rimane uno dei punti più critici da affrontare poiché, secondo i dati della Banca Mondiale, il Perù sarà uno degli Stati ove l’effetto dalla crisi del Covid-19 avrà maggiore impatto sulla contrazione dell’economia e sulla disoccupazione. Il Perù del bicentenario sarà un duro campo di prova sia per la presidenza di Sagasti quanto per quella che uscirà dalle elezioni dell’aprile del prossimo anno. Di fatto, i pesanti scandali di corruzioni legati all’enorme caso Odebrecht, gli effetti devastanti del COVID-19, con la disastrosa cifra di 940 mila casi e 35.317 decessi su una popolazione di appena 32 milioni di abitanti e soprattutto gli effetti che questa epidemia sta avendo sull’economia reale hanno portato il nuovo presidente a dirsi pronto sin da subito a fronteggiare la brusca contrazione del Pil che, secondo l’Instituto Nacional de Estadística e Informática, chiuderà il 2020 in recessione con un caduta tra gli 11 e i 12 punti percentuali (-13,9% secondo il World Economic Outlook del FMI di ottobre). In tal senso, il nuovo presidente ha già chiarito che il governo dovrà far ricorso a un ulteriore indebitamento di circa 30 miliardi di Nuevos Soles (7,09 miliardi di euro) per poter far fronte al bilancio del 2021, a causa della massiccia spesa pubblica indirizzata al sostegno delle famiglie e al piano di sussidi salariali a le Pmi che hanno visto il loro indotto ridursi di almeno il 30%.
Sagasti ha, inoltre, ricordato che non vi è altra strada per coprire il crollo delle entrate fiscali, di circa il 30%, dovuto al fatto che gran parte di queste sono state sospese o prorogate dalla fine di luglio per far fronte alle drammatiche conseguenze dell’epidemia: nel prossimo bilancio annuale «molte richieste rimarranno inevase, poiché, data la situazione, si dovrà dare priorità alle necessità più impellenti di chi veramente ha sofferto di più gli effetti della pandemia».