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Commentary

Petrolio e sviluppo: se una foglia cade a Pechino…

09 novembre 2012

«Non c’è foglia che cada a Teheran che non faccia tremare la terra al Cairo»

Con questo detto si è sempre voluto intendere la forte correlazione fra gli accadimenti nel Medio Oriente allargato, e la conseguente necessità di studiarli spesso come un unicum, in modo da comprenderne a pieno le logiche e gli sviluppi. 

Oggi, sotto molti aspetti, questo detto può essere considerato ancora valido anche se forse è pos-sibile allargarne la visione, o perlomeno è possibile formularne un altro molto simile ma dal bari-centro spostato più a oriente: 

«Non c’è foglia che cada a Pechino che non faccia tremare la terra a Teheran (e a Riyadh)»   

Questo spostamento di prospettiva verso est non è niente di nuovo. Da tempo si parla di come gli intrecci economici tra Asia – e Cina in primis – e Medio Oriente siano in costante crescita e carat-terizzati da una sempre maggiore interdipendenza. Soprattutto la zona del Golfo Persico – nella quale da decenni Iran e Arabia Saudita si affrontano in una sorta di “guerra fredda” regionale – è al centro di questi rapporti economici. Essa fornisce infatti a Pechino circa la metà delle sue importa-zioni petrolifere e vede i due rivali, Arabia Saudita e Iran, rispettivamente al primo e al secondo po-sto tra gli stati fornitori. 

La Cina non è importante per il Golfo solo per gli attuali e futuri volumi d’affari diretti, ma lo sta diventando sempre di più come attore fondamentale per la determinazione della domanda futura – e quindi dei prezzi – degli idrocarburi. 

Con gli Stati Uniti vicini all’autosufficienza energetica e l’Europa che si dibatte nella crisi dei debiti sovrani e sempre più impegnata in programmi di risparmio energetico, l’Asia e la Cina sono da tempo considerati i “driver” principali in grado di sostenere la crescita della domanda e con essa la stabilità dei prezzi. 

 

Proprio la stabilità dei prezzi (alti), importante per qualunque produttore, dopo il 2011 e la Primavera araba è però diventata un fattore pressoché esistenziale per i paesi esportatori del Golfo persico. L’onda delle rivolte arabe è infatti arrivata a lambire anche le coste delle benestanti monarchie del Golfo ed è addirittura culminata in un vero e proprio tentativo di abbattimento della monarchia in Bahrein. 

La reazione delle élite dominanti è stata però repentina e tutto sommato piuttosto prevedibile. Hanno dato fondo alle proprie vaste risorse finanziarie, rese al momento ancora più vaste dal picco dei prezzi avvenuto nel 2011. Sono stati approntati programmi di housing sociale, sussidi e aumenti di stipendio al fine accontentare la popolazione e sedarne il malcontento e le richieste di riforme sociali e politiche. 

La strategia sembra aver funzionato nel breve termine, ma presenta evidenti falle, soprattutto in termine di sostenibilità, nel lungo termine. Un’analisi della Arab Petroleum Investment Corporation (Apicorp) ha infatti calcolato come i budget nazionali di molti stati produttori mediorientali (e non solo) siano diventati sostenibili solo al di sopra di soglie molto alte dei prezzi petroliferi. Paesi come Iran e Iraq avrebbero gravi problemi di bilancio con prezzi inferiori addirittura ai 100 dollari al barile, mentre Eau e Arabia Saudita non si troverebbero in condizioni assai migliori, con una soglia di so-stenibilità vicina ai 90 dollari al barile. 

 

Alla luce di questi dati, e tenendo conto dell’importanza della Cina come driver della domanda di idrocarburi, è più facile comprendere quanto il rallentamento dell’economia cinese sia un grave fattore di rischio non solo per i volumi di affari tra la Cina e la regione mediorientale, ma, indiretta-mente, anche per la stessa stabilità delle monarchie del Golfo. 

In un report del Financial Times intitolato Global Economy: When China Sneezes uscito il 17 ottobre scorso, diversi autori analizzano i cosiddetti effetti di “spillover” sui prezzi delle commodities causati dal rallentamento dell’economia cinese, evidenziando come questi rischino di compromettere lo stato di economie anche lontane ma strutturalmente dipendenti dalle importazioni cinesi come l’Australia, uno dei maggiori fornitori di materie prime per l’industria manifatturiera della Repubblica popolare. Se andiamo ad analizzare con maggiore attenzione i report del Fondo Monetario Internazionale sull’argomento scopriamo come nel campo petrolifero a un aumento della produ-zione industriale cinese pari a un punto percentuale del Pil corrisponda un aumento di prezzo del greggio (a parità di offerta) del 6%, un effetto inferiore solo a quello dell’economia americana, ca-ratterizzata però da tassi di crescita assai inferiori di quella cinese.

In caso di rallentamento dell’economia cinese e stagnazione della crescita degli importatori occi-dentali è evidente quindi come il mercato petrolifero sia destinato nel medio termine a subire una notevole contrazione dei prezzi. Essi infatti si sono mantenuti sino a oggi ben oltre i 100 dollari al barile soprattutto a causa delle tensioni legate alla disputa sul nucleare iraniano e alla Primavera araba, anche se tale prezzo risulta altamente sovrastimato se si tiene conto dell’andamento della domanda mondiale e del ritorno a pieno regime delle produzioni di alcuni paesi come la Libia, in-terrotte durante i moti del 2011 ma ora totalmente ripristinate.

A ciò si devono aggiungere le previsioni per il futuro che parlano di un aumento consistente dell’offerta soprattutto in relazione al previsto repentino aumento della produzione irachena, che viene stimata in crescita dagli attuali 3 milioni a circa 9 milioni di barili al giorno entro il 2030, per-formance che collocherebbe l’Iraq al secondo posto fra i produttori mondiali di greggio dietro l’Arabia Saudita. 

Con un’offerta in potenziale forte crescita e una domanda fiaccata dalla frenata cinese, tempi di forte contrazione dei prezzi e di problemi di bilancio potrebbero quindi investire i paesi del Golfo, mettendo in pericolo la loro stessa stabilità. 

Dopo anni di pressioni e promozione della democrazia in tutta la regione da parte di Washington sarebbe ironico se alcuni tra i regimi più conservatori al mondo alla fine venissero scossi dalle fon-damenta da una foglia caduta a Pechino. 

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