Sembrava poter diventare la nuova architettura di riferimento per la gestione del mercato petrolifero. E invece il cosiddetto OPEC+ – l’alleanza del cartello OPEC guidato dall’Arabia Saudita con la Russia, maggiore esportatore mondiale non-OPEC – già somiglia a una storia d’amore già finita. Una storia d’amore improbabile, come tutte quelle che è appassionante seguire, tra Riyadh, tradizionale alleato di punta degli USA nel mondo arabo, e Mosca, che in Siria combatte a fianco dell’Iran, arcinemico saudita, e che non disdegna flirt occasionali con l’altro nuovo arcinemico degli Al-Saud: la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Tutto era iniziato con il comune interesse a tenere a bada il prezzo del petrolio dopo il crollo di inizio 2015. Un crollo voluto per una decisione improvvisa – la prima di una lunga serie – del giovane erede al trono Mohammed bin Salman (divenuto noto al mondo con l’acronimo MBS), che mirava a riconquistare quote di mercato e a danneggiare mortalmente l’industria dello shale oil americano. Quest’ultima aveva infatti la colpa di aver rivoluzionato la tecnologia estrattiva facendo rapidamente diventare gli Stati Uniti, da primo importatore, a maggiore produttore (e presto esportatore) mondiale. Dopo che i prezzi erano crollati da oltre 120 a 30 dollari scarsi al barile nel 2017, l’alleanza con la Russia si era resa necessaria per due motivi: primo, la necessità di contenere una contrazione dalle dimensioni inaspettate, che metteva in dubbio già nel medio termine la capacità di tenuta del budget statale di molti stati produttori, Arabia Saudita compresa. Secondo, il riconoscimento, certo amaro per Riyadh, che il glorioso cartello OPEC non era più in grado da solo di condizionare a sufficienza i prezzi del petrolio. Solo un allargamento dell’alleanza con il più grande esportatore extra-OPEC – la Russia – poteva riportare il mercato sotto controllo. L’obiettivo era quindi duplice: mantenere i prezzi del petrolio abbastanza bassi da mettere almeno in difficoltà (perché eliminarli si era già rivelato impossibile) i produttori shale e tutti i newcomer con alti costi di estrazione ma evitare anche crolli troppo vertiginosi in grado di mettere in pericolo l’economia stessa dei produttori tradizionali, in primis sauditi e russi. Ed è stato questo momento di armonia di interessi che ha portato al cosiddetto OPEC+, ovvero un piano di tagli concordati della produzione mirato a mantenere i prezzi del petrolio sopra un certo limite (50-60 dollari al barile) a fronte di un livello di domanda stagnante.
Ma, come tutte le storie d’amore degne di questo nome, le difficoltà non sorgono mai nei primi tempi dell’idillio, bensì dopo, quando gli innamorati iniziano a non vedere il mondo esattamente allo stesso modo; metafora che nel nostro caso si traduce nel non avere più interessi totalmente coincidenti. In particolare, rispetto al 2015, anni di sanzioni e politiche di autarchia hanno significativamente abbassato il prezzo break-even del budget russo, ovvero il prezzo del petrolio che permette allo stato di raggiungere il pareggio di bilancio. Oggi Mosca è molto meno dipendente che in passato dalle importazioni e ha accumulato significative riserve di valuta in modo da poter attutire eventuali shock esterni. Oggi il break-even russo si aggira quindi intorno ai 42 dollari al barile. Per Riyadh la storia è alquanto diversa: il difficile periodo di riforme economiche che sta attraversando rendono il regno ancora molto dipendente dagli introiti petroliferi, per quanto meno che in passato. Il break-even saudita si colloca di poco sopra agli 80 dollari al barile, anche se notevoli riserve finanziarie e l’emissione dei primi bond statali hanno finora permesso al governo di navigare facilmente anni di prezzi ben più bassi.
Ma il crollo ulteriore dovuto allo shock economico planetario causato dal coronavirus ha messo nuovamente in allerta la corte di Riyadh. Per settimane MBS ha cercato di trovare l’accordo con i russi per nuovi tagli concordati alla produzione, ma senza successo. Per Mosca la nuova contrazione è un’occasione d’oro per colpire gli interessi dei produttori shale americani, soffocati da un alto livello di indebitamento accumulato negli anni precedenti. Secondo indiscrezioni, ad irritare i vertici russi sarebbe stato anche l’aut-aut imposto da Riyadh, che ha posto Mosca in uno stato apparente di “junior-partner”. Ed è così che il governo russo ha detto un secco no alla proposta saudita.
La risposta di MBS, come ormai ci ha abituato il giovane rampollo, non si è fatta attendere. Il regno ha aumentato vertiginosamente la produzione, come solo Riyadh può fare in quanto produttore dotato della più significativa swing capacity (capacità di modulare al rialzo o al ribasso il proprio livello di produzione), causando il più drastico crollo dei prezzi dai tempi della Seconda Guerra del Golfo (-31%). L’intento saudita è chiaro: costringere i russi a un accordo vendendo sottoprezzo ai loro clienti e sottraendogli così quote di mercato.
Ma la strategia di MBS solleva diversi interrogativi, il principale dei quali è la sostenibilità della decisione per le stesse casse dello stato. La caduta del prezzo del petrolio ha infatti travolto la borsa saudita, con le azioni di Saudi Aramco che per la prima volta dal dicembre scorso sono scese sotto il valore dell’IPO iniziale. La quotazione in borsa del colosso energetico di stato dovrebbe servire nei piani a generare liquidità per finanziare il piano di riforme Vision 2030, volto a diversificare l’economia del paese e a traghettare Riyadh nell’era post-oil. Ad oggi, però, i risultati sono stati modesti: oltre alla difficoltà nell’attrarre investimenti internazionali, il Regno si trova a fare i conti con un quadro economico fosco, al quale si aggiungono ora le ripercussioni negative della crisi legata al diffondersi del coronavirus.
Proprio l’esigenza di consolidare il proprio potere politico in modo da fare fronte alle difficoltà economiche che incombono all’orizzonte, sembra essere dietro all’ennesima “epurazione” lanciata da Mohammad bin Salman proprio negli scorsi giorni. Dopo la precedente ondata di arresti del novembre 2017 – quando decine di principi e businessmen erano stati epurati con l’accusa di corruzione – questa volta le misure hanno riguardato due membri eccellenti della casa reale: l’ex principe ereditario Mohammad bin Nayef (poi surclassato da MBS) e Ahmed bin Abdulaziz, fratello di re Salman. La mossa di MBS, giustificata ufficialmente con la necessità di “sventare un colpo di palazzo imminente”, è stata interpretata piuttosto come la necessità di eliminare qualsiasi resistenza residua alla sua definitiva ascesa al trono. Entro la fine dell’anno, dicono I bene informati, MBS diventerà re, godendo del momento di celebrità internazionale offerto dai riflettori del G20 e della benedizione del padre, re Salman, che mentre ancora in vita potrebbe proteggere il rampollo da coloro – pochi, ormai – che si oppongono alla sua incoronazione.
In conclusione, mentre numerosi interrogativi si accumulano all’orizzonte – dalla realizzabilità della Vision di MBS alle capacità del principe ereditario di traghettare il paese attraverso una fase di trasformazione così delicata – quello del petrolio è l’ennesimo fronte aperto di un’Arabia Saudita sempre più assertiva e audace. Un fronte che – come quello militare aperto in Yemen ormai cinque anni fa e quello aperto col blocco diplomatico-commerciale del Qatar 3 anni fa – il giovane Mohammad bin Salman potrebbe non essere in grado di chiudere, con ripercussioni oltre che per lo stesso regno saudita, anche per russi ed americani. Per una volta, a guadagnarci potrebbero essere i compratori, anche se in questo periodo è di magra consolazione.