In queste settimane si discute su se e come colpire Mosca dove fa più male: le sue esportazioni energetiche. Dato per certo che sanzioni sul gas colpirebbero in misura eccessiva i Paesi UE, e in particolare alcuni dei più dipendenti dal gas russo (Italia inclusa) che avrebbero bisogno di maggiore tempo per emanciparsi, tecnici e funzionari europei si sono messi al lavoro su possibili sanzioni alle esportazioni del petrolio russo e dei suoi prodotti (benzina, gasolio, eccetera). Una delle condizioni cardine di una sanzione disegnata bene, infatti, è che il suo effetto sul Paese destinatario della sanzione sia quantomeno maggiore di quello per il Paese o gruppo di Paesi che la impone.
Occhio ai ricavi
Il criterio non dipende dunque solo da quanto male possa farsi l’Europa, ma anche da quanto l’Europa potrebbe far male al Cremlino. In questo senso, si inizi con il constatare che in condizioni di mercato “normali” le esportazioni di petrolio e derivati della Russia verso l’UE valgono molto più di quelle di gas naturale: nel 2021 le prime valevano 74 miliardi di euro, le seconde circa 16. E se è vero che i prezzi del gas quintuplicati in Europa hanno fatto schizzare verso l’alto anche i ricavi di Gazprom, non è affatto detto che – se l’UE volesse tentare di minimizzare i ricavi che Mosca estrae dalle vendite di gas naturale – la mossa corretta sia quella di ridurre rapidamente le importazioni europee. Anzi, come dimostrato da un recente articolo dell’Oxford Institute for Energy Studies, l’effetto nel breve periodo potrebbe persino essere l’opposto.
Se dunque l’intento dei Paesi europei è quello di colpire Mosca dove fa più male (le sue esportazioni energetiche), come facciamo ad assicurarci che, in caso di sanzioni su petrolio e derivati, il danno collaterale subìto dall’UE sarebbe inferiore rispetto a quello inferto alla Russia?
Costi a confronto
Il grafico in apertura di articolo cerca di fare proprio questo: calcolare quali siano gli effetti di possibili sanzioni sulle esportazioni petrolifere della Russia, e confrontare i costi per Mosca e per i Paesi UE. Possiamo tentare questo calcolo perché dopo l’invasione russa dell’Ucraina in Europa è accaduto qualcosa di peculiare: pur in assenza di sanzioni sul petrolio, una parte dei grandi importatori europei ha cominciato a limitare i propri acquisiti di petrolio russo, di fatto “auto-sanzionandosi”. È dunque possibile utilizzare il periodo che va dall’invasione a oggi per capire quale sia stato l’effetto di queste auto-sanzioni sulle entrate russe, e quale il costo per i cittadini europei.
L’effetto sulle entrate e sui costi dipende da due cose: il prezzo del petrolio e i volumi esportati dalla Russia, o importati dall’Unione europea. Nel caso dell’Unione europea, con l’invasione le cose sono certamente peggiorate: con l’acquisto di 9,4 milioni di barili al giorno, l’UE a 27 è il secondo più grande importatore di petrolio al mondo, subito dietro la Cina. L’invasione russa dell’Ucraina e, in parte, le auto-sanzioni europee hanno fatto lievitare il Brent (il benchmark utilizzato in Europa per calcolare i prezzi del petrolio) salito da circa 90 a 112 dollari al barile. Di fatto questo significa che per gli europei, dall’inizio dell’invasione il 24 febbraio al 21 aprile, il costo delle importazioni petrolifere è salito da 33,7 a 41,9 miliardi di dollari: un aumento di 8,2 miliardi.
Da parte russa, invece, le perdite sono duplici. Le auto-sanzioni europee hanno infatti un effetto diretto e uno indiretto. L’effetto diretto consiste nel far diminuire i volumi di petrolio esportati dalla Russia. L’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) stima che, rispetto ai 7,4 milioni di barili al giorno esportati prima dell’invasione, Mosca abbia progressivamente perso circa 0,7 milioni di barili al giorno tra inizio marzo e inizio aprile, e che questi dovrebbero aumentare ancora fino a quota 1,5 milioni di barili al giorno entro fine mese. Nel frattempo, pur di riuscire a piazzare il proprio petrolio in un mercato diventato improvvisamente refrattario a fare affari con Mosca, gli esportatori russi sono costretti a vendere il proprio petrolio a un forte sconto rispetto al Brent. Per esempio, mercoledì 21 aprile il prezzo del Brent era di 107 dollari al barile, ma il prezzo del greggio russo (Urals) era crollato a 71 dollari al barile. Il combinato disposto di questi due fattori ci porta a stimare che le entrate russe dalla vendita di greggio e prodotti derivati dal momento dell’invasione al 21 aprile siano ammontate a circa 23 miliardi di dollari, contro i 25,9 miliardi che sarebbero stati raggiunti con prezzi e volumi pre-invasione. Una perdita di 2,9 miliardi di dollari.
Il peso delle auto-sanzioni
Dunnue, un costo per l’UE di 8,2 miliardi di dollari contro una perdita inferta ai russi di 2,9 miliardi. Significa che le sanzioni non convengono all’UE? Nient’affatto. A molti non sarà certo sfuggito che questo costo va “spalmato” sulla popolazione dei due blocchi, e sulla loro prosperità relativa. In Russia abitano infatti circa 144 milioni di persone, mentre l’UE27 ospita circa 448 milioni di persone: oltre il triplo.
Il grafico qui sopra riporta dunque i costi giornalieri pro capite delle auto-sanzioni, per l’Europa e per la Russia. Più si scende in territorio negativo, più i costi aumentano. Come si può notare, dopo le prime settimane iniziali di incertezza in cui sembrava che l’effetto dell’aumento dei prezzi stesse arrecando maggiori danni all’UE che alla Russia (che anzi inizialmente ci stava guadagnando), in breve tempo la situazione si è invertita. Prima da metà marzo, e poi con sempre maggior forza dalla fine di marzo e l’inizio di aprile, tra i costi europei e quelli russi si è aperta una voragine a sfavore di Mosca.
Oggi, mentre a causa delle auto-sanzioni i cittadini europei perdono circa 0,4 dollari al giorno, quelli russi ne perdono quattro volte tanti: circa 1,6 dollari al giorno. Si tratta di costi che potrebbero anche aumentare, dal momento che la Russia starebbe ancora esportando l’80-85% del petrolio che esportava nel periodo prebellico. Ma già così, nel corso di un anno i cittadini russi perderebbero 570 dollari a testa, mentre gli europei perderebbero 146 dollari a testa.
Fatto un ulteriore calcolo sulla base del Pil pro capite di entrambi i “contendenti” (utilizzando i dati di aprile del FMI, 12.198 dollari pro capite per la Russia e 48.750 dollari pro capite per l’UE), si tratta di una perdita secca del 4,7% del reddito di un cittadino russo, ma solo dello 0,3% del reddito di un cittadino europeo. Insomma, il rapporto tra danno inferto e danno subìto diventa enormemente favorevole agli europei, di 16 a 1.
Certo, eventuali sanzioni formali sul petrolio russo andranno studiate con attenzione: una limitazione eccessiva e troppo repentina delle esportazioni da Mosca potrebbe far aumentare troppo il prezzo del Brent, moltiplicando il danno per i cittadini europei e al contempo riducendo il danno subìto da Mosca (al netto della differenza di prezzo tra Brent e Urals). Tuttavia, l’esperienza delle auto-sanzioni europee al petrolio russo dimostra che le sanzioni sulle esportazioni petrolifere di Mosca sono la via più sicura per colpire duramente il Cremlino, senza colpire in misura eccessiva il consumatore europeo. Insomma, la strada è tracciata: adesso non resta che convincere gli ultimi dubbiosi – compreso il Governo tedesco – e gettare il cuore oltre l’ostacolo.