La storia si ripete spesso, anche se non sempre allo stesso modo. Agli inizi degli anni ‘70 dopo la guerra del Kippur, come ritorsione al supporto dato dai Paesi occidentali a Israele, i Paesi Arabi dell’OPEC decisero un embargo sul petrolio. Circa il 5% della produzione scomparve dal mercato facendo quadruplicare il prezzo da 3 a 12 dollari al barile. Mezzo secolo più tardi, sono i Paesi occidentali che come ritorsione all’invasione dell’Ucraina hanno adottato sanzioni nei confronti del petrolio russo. È lecito quindi domandarsi l’impatto di tali sanzioni sul prezzo del greggio.
Le sanzioni al petrolio russo
Il Consiglio europeo del 30-31 maggio 2022 ha approvato nel cosiddetto sesto pacchetto un regime di sanzioni sull’import nell’Unione Europea di petrolio e prodotti raffinati russi. L’UE importa più del 90% del proprio petrolio e la Russia è stata nel 2021 il nostro maggior fornitore coprendo il 27% dell’import. D’altro canto, gli europei sono stati il miglior cliente della Russia che ha diretto verso di noi quasi la metà del suo export petrolifero, più del doppio dell’export verso la Cina.
Il commercio di petrolio avviene su scala globale e il greggio viene principalmente trasportato con petroliere. Circa l’80% del nostro import arriva via mare e quindi se non comprassimo più petrolio russo potremmo approvvigionarci tramite petroliere da altri fornitori. Tale flessibilità non esiste però per gli Stati dell’Europa centro-orientale, senza accesso al mare, che dipendono in larga parte dalle forniture russe trasportate dall’oledotto Druzhba.
Le sanzioni non includono quindi le forniture tramite Druzbha: in particolare i Paesi alimentati dal ramo sud dell’oleodotto, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, beneficiano di un’esenzione “temporanea ma senza limiti di tempo” dall’embargo. Polonia e Germania, che si approvvigionano attraverso il ramo settentrionale dell’oleodotto russo, beneficiano di un’esenzione di sei mesi avendo la possibilità di rimpiazzare l’import della Druzhba tramite i loro porti sul Baltico. Quando il sistema sarà a regime, all’inizio del 2023 quasi il 90% dell’import russo nell’UE sarà sotto embargo.
Di fatto gli operatori europei avevano già cominciato ad “autosanzionare” gli acquisti di petrolio russo per evitare danni di reputazione, problemi logistici e non volendo dipendere da un fornitore inaffidabile. Uno svezzamento dal greggio russo stava già riducendo le entrate petrolifere russe, che l’Agenzia Internazionale dell’Energia stima in 20 miliardi di dollari al mese e che costituiscono la parte preponderante dei finanziamenti del Cremlino. Ciò è dovuto non a una riduzione dell’export, che è stato rediretto verso altri acquirenti, ma al fatto che i nuovi compratori acquistino l’Urals, il greggio russo, con uno sconto a volte superiore ai 35 dollari al barile rispetto al prezzo del Brent.
L’impatto del conflitto in Ucraina sul prezzo degli idrocarburi
Alcuni analisti hanno paventato la possibilità che il conflitto in Ucraina e le sanzioni europee possano infiammare il prezzo del greggio come avvenuto negli anni ‘70. Tuttavia, non è corretto ascrivere integralmente gli aumenti di prezzo degli idrocarburi al conflitto fra Russia e Ucraina. Il prezzo medio del Brent nel 2020 era stato di 40 dollari al barile, ma già alla fine del 2021 aveva oltrepassato gli 80 e nel febbraio 2022, prima dell’invasione russa, veleggiava verso i 100. I prezzi del gas naturale si erano già quintuplicati durante il 2021 cioè ben prima dell’inizio della guerra.
L’aumento dei prezzi degli idrocarburi nel 2021 è stato legato a una crescita economica vicina al 6% e ad una domanda di petrolio che è cresciuta in conseguenza di 5,4 milioni di barili al giorno, con un consumo di gas aumentato dell’8%. A fronte di una domanda in forte crescita, l’offerta ha stentato a seguire perché gli operatori avevano ridotto drasticamente gli investimenti in esplorazione e produzione a partire dal 2014 quando il prezzo del barile si era più che dimezzato scendendo da più di 100 fino a 50 dollari.
Quindi petrolio e gas naturale erano già aumentati nel 202. L’invasione dell’Ucraina, apportando un fattore di instabilità, ha aggiunto un differenziale geopolitico a prezzi già elevati.
Quali saranno i drivers del prezzo del barile nei prossimi mesi ?
Il prezzo del petrolio nei prossimi mesi sarà determinato principalmente da tre fattori: l’evoluzione della domanda, la crescita dell’offerta e un differenziale legato al rischio di rotture degli approvvigionamenti. Per la domanda, l’Agenzia Internazionale dell’Energia stima per il 2022 una crescita di 1,8 milioni di barili al giorno, quindi molto più contenuta rispetto al 2021.
Sul fronte dell’offerta si deve distinguere fra disponibilità di petrolio russo e offerta dal resto dei produttori. La disponibilità di petrolio russo dipenderà dall’efficacia con cui il Cremlino, soggetto a sanzioni, troverà compratori alternativi per il suo greggio. Di fatto ciò è già avvenuto e nei primi mesi del 2022 l’export russo verso l’Asia è quasi raddoppiato rispetto al 2021. Se la Russia riuscisse a ridirigere tutto il proprio export verso altri mercati, poiché il mercato del petrolio è globale non avremmo squilibri; ma se parte del greggio russo rimanesse invenduto, il mercato dovrà approvvigionarsi da altri fornitori.
Quanta produzione addizionale arriverà nel 2022?
I prezzi in salita hanno stimolato la produzione di shale oil americano e per Bloomberg un milione di barili addizionali potrebbero arrivare sul mercato entro la fine dell’anno. In Europa Equinor arriverà al plateau della produzione del campo di Sverdrup aggiungendo 250.000 barili al giorno di produzione. Ulteriori aumenti potrebbero derivare da un alleggerimento delle sanzioni verso l’Iran, che potrebbe esportare un milione di barili in più. È poi di questi giorni la notizia che gli Stati Uniti hanno autorizzato le società ENI e Repsol all’acquisto di greggio venezuelano fino ad oggi sottoposto a sanzioni.
Il grande jolly per aggiungere quantità rilevanti di petrolio sul mercato è però sempre nelle mani dell’OPEC+, l’alleanza creata nel 2016 dall’OPEC, e altri Paesi produttori capitanati dalla Russia. Nell’ultima riunione dell’organizzazione è stato deciso di aumentare la produzione di 650.000 barili al giorno dal mese di luglio.
La misura più veloce per mitigare un’impennata dei prezzi è il ricorso agli stock petroliferi, dei Paesi membri dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, che sono dotati di scorte equivalenti 90 giorni di importazioni. Il rilascio degli stock può assorbire esaurimenti temporanei degli approvvigionamenti evitando impennate dei prezzi, ma possono non può compensare una mancanza strutturale di petrolio.
Nel caso la mancanza di petrolio fosse più duratura, si potrebbero implementare misure sul fronte della domanda. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha proposto un decalogo che ridurrebbe la domanda di petrolio fino a 2,7 milioni di barili al giorno. Le iniziative proposte ricordano misure adottate negli anni ’70 includendo una riduzione di 10 chilometri all’ora della velocità massima sulle autostrade, telelavoro per tre giorni alla settimana, riduzione dei costi per i trasporti pubblici e domeniche senza auto.
Quali scenari?
L’aumento dei prezzi degli idrocarburi nel 2021 è stato causato dall’incremento della domanda in seguito alla forte ripresa economica con un’offerta che ha stentato a seguire, il conflitto in Ucraina ha poi alimentato la spirale dei prezzi.
Il prezzo del petrolio nei prossimi mesi dipenderà da un lato dalla capacità della Russia di riorientare le proprie vendite verso altri compratori, come il Cremlino sta già facendo concedendo sconti fino a 35 dollari al barile. Dall’altro lato, dalla capacità di altri fornitori di compensare un eventuale deficit di petrolio russo.
I prossimi mesi saranno caratterizzati da incertezza e i prezzi potranno subire impennate legate a possibili escalations del conflitto in Ucraina con distruzione degli approvvigionamenti di idrocarburi.
Negli anni ‘70 due shock petroliferi portarono il prezzo del barile da 3 a 40 dollari ma generarono anche una virtuosa politica di efficienza energetica rendendo le nostre economie meno dipendenti dal petrolio e dall’OPEC. Quell’esperienza dovrebbe quindi essere un esempio e uno stimolo a implementare ancor più velocemente le nostre politiche di efficienza energetica e di decarbonizzazione.