Con il Decreto Legge n. 59/2021 sulle “Misure urgenti al Fondo complementare al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e altre misure urgenti per gli investimenti”, il quadro complessivo delle future politiche di sviluppo del sistema portuale è ormai delineato. Le risorse messe a disposizione per il periodo 2021-26 sono ingenti e distribuite su una pluralità di linee di intervento:
- rinnovo delle flotte, navi verdi, 800 milioni di euro;
- accessibilità marittima e della resilienza delle infrastrutture portuali, 1.470 milioni;
- aumento selettivo della capacità portuale, 390 milioni;
- ultimo/penultimo miglio ferroviario/stradale, 250 milioni;
- efficientamento energetico, 50 milioni;
- elettrificazione banchine, 700 milioni;
Nel complesso 3.660 milioni di euro, quasi l’intero ammontare delle risorse previste dal PNRR per la portualità nazionale: in questo modo gli investimenti maggiori ricadono sulle procedure di approvazione, monitoraggio e controllo definite dal Governo italiano, piuttosto che da quelle più stringenti messe a punto dalla Commissione europea. Le risorse che fanno capo al Recovery Fund, relativamente ai porti e alla logistica integrata, ammontano a 0,63 miliardi di euro e sono destinate a sostenere le riforme necessarie alla modernizzazione del settore (semplificazione delle procedure per la pianificazione strategica, aggiudicazione delle aree portuali, autorizzazioni in particolare per gli impianti di cold ironing, implementazione sportello unico doganale) e la digitalizzazione dei servizi di trasporto passeggeri e merci.
I motivi dell’allocazione delle risorse
La scelta di concentrare gli investimenti nel Fondo complementare tiene conto sia dell’esigenza politica di avere maggiori margini di manovra per l’assegnazione dei finanziamenti alle singole Autorità portuali di sistema sia della complessità dei processi attuativi degli interventi infrastrutturali portuali. In relazione a quest’ultimo punto molto ci si attende dal Dl 76/2020 (Semplificazioni) che ha ampliato e prorogato la disciplina dei commissari straordinari previsti dal decreto sblocca cantieri (Dl 32/2019), per cui oggi abbiamo 29 commissari straordinari tra cui tre Presidenti di Autorità portuale di sistema per 57 grandi opere il cui costo d’investimento è di oltre 82 miliardi; e dal Dl 77/2021 (Governance PNRR) attraverso cui sono state introdotte procedure semplificate per accelerare l’approvazione e l’attuazione delle grandi opere.
Il nuovo dispositivo riguarda dieci interventi di rilevanza strategica, tra cui due attengono alla portualità: la nuova diga foranea di Genova e il progetto Adriagateway di Trieste. L’art. 44 del Dl 77/2021 prevede una commissione speciale per la valutazione dell’impatto ambientale (VIA), una Soprintendenza speciale per la tutela dei beni culturali e paesaggistici relativi ai contesti interessati dagli interventi del PNRR, il comitato speciale del Consiglio superiore dei lavori pubblici come struttura di valutazione preventiva dei progetti di fattibilità tecnica ed economica, di compensazione dei conflitti interministeriali e territoriali e di mediazione nei casi di dissenso in sede di VIA e di conferenza di servizi. Per risolvere le questioni più difficili, ampi poteri sostitutivi sono affidati al Presidente del consiglio e al Consiglio dei ministri che si avvale di una Segreteria tecnica presso Palazzo Chigi.
Nell’insieme un complesso sistema normativo (che presenta ambiti di sovrapposizione) e un apparato tecnico imponente per realizzare congiuntamente l’obiettivo dì accelerare i processi autorizzativi e di attuazione. Un obiettivo irrinunciabile che va perseguito non solo per le grandi opere, ma anche per la pluralità degli interventi ordinari. La sfida è stata lanciata, le risorse finanziarie e organizzative messe a punto. C’è da augurarsi che siano adeguate, perché nei prossimi sei anni, secondo il cronoprogramma del PNRR, in un’ottica di sviluppo e di transizione ecologica, si giocano le sorti del Paese. In tale contesto un ruolo importante dovrà essere sostenuto dal sistema portuale nazionale.
Lo sviluppo del sistema portuale
È vero, come afferma il ministro Enrico Giovannini, che “circa 4 miliardi previsti dal piano sui porti è una cifra che non si è mai vista”. Ma, nonostante le risorse in gioco, le prospettive di sviluppo del sistema portuale restano ancora poco chiare. L’unico dato certo sembra essere la scelta di concentrare gli investimenti nei porti di Genova e di Trieste: nel primo per realizzare una diga foranea, a 500 mt. più al largo rispetto a quella esistente, per consentire l’accesso delle nuove mega navi container, nel secondo per implementare ulteriormente la piattaforma logistica attraverso ampliamenti e interconnessioni ferroviarie. Ai due porti sono stati assegnati rispettivamente 500 e 400 milioni di euro (quasi la metà delle risorse previste per le infrastrutture portuali dal Recovery Plan).
I finanziamenti sono finalizzati al sostegno dei due porti come nodi logistici al servizio dell’Europa. Lo sviluppo del porto di Genova non è legato soltanto alla sua accessibilità marittima (la nuova diga), ma al completamento del Terzo valico e del tunnel del Monte Ceneri, indispensabili per la funzionalità del corridoio Rotterdam Genova. A Trieste, il porto italiano più avanzato sul piano dell’intermodalità nave-ferrovia, è decisivo implementare le relazioni con l’interporto di Cervignano come nodo di scambio verso la piattaforma logistica di Norimberga. Siamo in entrambi i casi solo all’inizio di un processo ma, mentre a Genova i tempi di attuazione saranno inevitabilmente lunghi, a Trieste sono previsti avanzamenti più rapidi. Qui si è intrapreso un processo virtuoso: alleanze con operatori della logistica internazionali (il porto di Amburgo, l’interporto di Norimberga, la società danese di servizi logistici DFDS), ma soprattutto una forte sinergia con la Regione Friuli Venezia Giulia e il territorio. Il porto di Trieste sta sperimentando una nozione di porto regione che ben si addice alla specificità del sistema portuale nazionale che è bene ricordarlo è estremamente parcellizzato: 16 Autorità portuali di Sistema, 58 porti di cui ben 16 afferenti alla rete centrale TEN-T, tutti inseriti in una intensa urbanizzazione costiera che limita fortemente il processo di delocalizzazione e di ampliamento della capacità portuale. Il sistema portuale nazionale è strutturalmente legato al territorio, alle aree retroportuali, agli interporti, ai distretti industriali, alle esigenze di consumo e di rifornimento dei territori regionali, alle ZES /Zone Economiche Speciali). E naturalmente alle città di riferimento.
Cosa manca nel Recovery?
È questa visione di territorio, che incredibilmente continua a mancare nel Recovery Plan. Manca un quadro generale di riferimento (l’ultimo piano generale dei trasporti è del 2001 e il promettente Piano nazionale strategico della portualità e della logistica del 2015 è rimasto sostanzialmente congelato).
Se è condivisibile il progetto di ampliare le relazioni di servizio portuale nei confronti dei Paesi d’oltralpe (al momento il traffico merci dei nostri porti ha una dimensione sostanzialmente legata al mercato nazionale), sarebbe auspicabile un coinvolgimento operativo dei sistemi portuali dell’alto Tirreno, dove troviamo porti di primo piano come Savona-Vado, La Spezia e Livorno (con la piattaforma Europa) e dell’alto Adriatico dove insistono porti come Ravenna e Venezia che non pone solo il problema della ricollocazione del porto crocieristico, ma anche della riconversione delle aree portuali e industriali di Marghera. Riuscire a dare una offerta coordinata di servizi portuali a livello di interregionale, sia nell’arco occidentale che orientale della penisola, aumenterebbe la capacità del Sistema Italia di interagire con il Northern range europeo, ma una prospettiva in questa direzione sembra al momento lontana.
Una volta accantonati 900 milioni di euro per Genova e Trieste restano per gli altri porti poco più di un miliardo attraverso cui finanziare interventi tesi al miglioramento dell’accessibilità marittima, all’efficienza dell’ultimo miglio ferroviario e autostradale, all’aumento della capacità portuale. Verosimilmente una distribuzione diffusa, da Vado a Catania, tutt’altro che selettiva.
Tra gli obiettivi da perseguire il trasferimento su ferro delle merci è probabilmente il più complesso. Allo stato attuale, relativamente al trasporto contenitori via treno, solo pochi porti hanno quote modali significative. Secondo uno studio dell’Isfort del 2019, Trieste e La Spezia, con circa il 30%, raggiungono livelli di rilievo; seguono, con quote minori, Genova e Livorno. Per realizzare con efficienza il trasferimento su treno dei contenitori (ma anche di semirimorchi di casse mobili, di camion, etc.) occorrono efficienti interconnessioni con la rete ferroviaria nazionale (ultimo miglio) e piazzali di grandi dimensioni in grado di consentire la formazione di convogli di almeno 600-750 metri (ma l’orientamento internazionale è utilizzare convogli ancora più lunghi). Al gigantismo delle navi si aggiunge ora quello dei treni.
Il recente rapporto Italian Maritime Economy di Smr-Intesa San Paolo sul primo semestre 2021 ha messo in evidenza la ripresa dei traffici commerciali dei porti italiani che si avviano a ritornare sui livelli pre-Covid. È certamente un buon segnale, ma forse va ricordato che il nostro sistema è stato negli ultimi dieci anni saldamente ancorato intorno a 10 milioni di TEU e a circa 480 milioni di tonnellate di merci all’anno (il porto di Rotterdam da solo movimenta 12-13 milioni di TEU). Superare questa soglia e trasferire su ferro quote più consistenti di merci saranno, in ultima analisi il banco di prova, dell’efficacia del Recovery Plan sullo sviluppo del sistema portuale nazionale.
La portualità meridionale e il Mediterraneo
Del tutto vaga è la strategia in favore della portualità del Mezzogiorno (nonostante l’impegno di investirvi almeno il 40% delle risorse del Recovery plan): non viene colto lo stretto rapporto tra i porti, i consumi regionali e gli entroterra produttivi. Eppure anche nel Mezzogiorno l’import-export è strettamente legato al trasporto marittimo: il futuro di Gioia Tauro come grande porto transhipment, oggi in forte ripresa, per la presenza di Contship, resta sospeso e continua a non trovare relazioni con il territorio; allo stesso modo Taranto, dove i nuovi concessionari terminalisti turchi (Yilport) sembrano aver compreso le potenzialità di un porto dotato di una notevole infrastrutturazione (il molo polisettoriale), non trova una adeguata attenzione, anche a fronte della sua collocazione in un’area a forte rischio ambientale che potrebbe trovare nello sviluppo del porto una componente importante per la sua riqualificazione. Neppure la questione dello stretto legame tra porti e sviluppo delle ZES sembra essere presa in seria considerazione.
Un discorso a parte meriterebbe l’infrastruttura trasversale tra il Tirreno e l’Adriatico, la linea AV/AC Napoli e Bari, che con un investimento di oltre 6 miliardi di euro è uno dei maggiori interventi in corso di attuazione nel nostro Paese. Qui il progetto di connessione con i sistemi portuali è ancora tutto da sviluppare.
Occorre riconoscere che manca, sia a livello nazionale che europeo, una attenzione strategica nei confronti del Mediterraneo, non solo perché vi transita circa il 10% del traffico marittimo mondiale (e il 30% dei contenitori), ma anche per la sua centralità economica e geopolitica. Negli ultimi decenni la scelta europea ha privilegiato lo sviluppo della portualità del Nord Europa e le relazioni con i Paesi dell’Est. Nel Mezzogiorno i porti italiani ristagnano e perdono terreno, crescono invece i porti del Nord Africa come Tanger Med e Porto Said, della Grecia come il Pireo, della Spagna come Algeciras e Valencia.
Il Mediterraneo è uno scenario strategico. I suoi porti hanno reso lo spazio acqueo un intreccio di “vie marittime e terrestri collegate tra loro e quindi di città che si tengono per mano”. La bella immagine di Braudel ha ancora senso, soprattutto per il nostro Paese. Nell’area mediterranea e nel Medio Oriente si concentra una buona parte del nostro interscambio marittimo. Solo questo è sufficiente a confermare la centralità del Mediterraneo per la tenuta della portualità nazionale,che, va ricordato, è fortemente caratterizzata dal traffico Ro-Ro, Ro-Pax, ovvero da una rete di autostrade del mare sostenuta da una flotta traghetti d’eccellenza.
Il Mediterraneo è al centro di interessi geopolitici ed economic: dall’energia al commercio, alla pesca. Ma c’è di più: è previsto uno forte sviluppo, non solo demografico, ma anche economico del continente africano e in particolare della sua costa settentrionale. La Cina, che da tempo sta portando avanti una strategia di posizionamento commerciale-infrastrutturale in Africa, ha rivolto la sua attenzione sul sistema portuale mediterraneo come nodo di smistamento e ramificazione in Europa delle supply chains che corrono lungo la Via della seta, che altri non è se non una filiera di porti connessi ad aree ZES di elaborazione delle merci. Tre grandi compagnie cinesi (Cosco, CMport, QPI) hanno già acquisito quote importanti nei porti mediterranei: dal Pireo a Porto Said, a Tanger Med, a Ambarli, a Haifa, a Valencia, a Marsiglia, a Vado.
Transizione ecologica
Più consistenti appaiono le risorse destinate alla sostenibilità ambientale e all’elettrificazione delle banchine (1,22 miliardi). Il tema dei green ports è indubbiamente importante ed è la via obbligata per superare la separazione tra porto e città, rendendo le aree portuali compatibili, sul piano ambientale, con quelle urbane. I porti hanno realizzato nuovi ecosistemi tra terra e mare che incidono direttamente sul microclima delle città e l’equilibrio idrogeologico del territorio (il Documento di pianificazione energetica e ambientale di sistema portuale, DEASP, introdotto negli ultimi anni ha avviato una riflessione in questa direzione). Ma i finanziamenti previsti colgono soltanto alcuni aspetti della questione, in particolare l’efficienza energetica degli edifici e l’elettrificazione delle banchine (ma non l’effetto isola di calore o la gestione delle acque).
L’elettrificazione delle banchine può consentire alle navi in sosta di spegnere i motori, abbattendo in tal modo le emissioni di gas serra e l’inquinamento atmosferico e acustico. Il trasferimento dell’energia dalle linee ad alta tensione alle banchine portuali e da qui alle navi, richiede forniture consistenti e specifiche infrastrutture (cabine di trasformazione dell’alta tensione e conversione, cavi), ma anche navi appositamente predisposte all’alimentazione elettrica (anche se temporanea). Su questo versante, nonostante gli 800 milioni di euro destinati al rinnovo delle flotte e alle navi verdi, persiste una forte resistenza da parte degli armatori, sia per i maggiori costi dell’energia elettrica sia per gli investimenti necessari per l’adeguamento delle navi.
Lo scenario diventa ancora più complesso se l’obiettivo è quello di utilizzare energia rinnovabile che va prodotta e stoccata in particolari sistemi di accumulo. L’energia rinnovabile prodotta da impianti eolici e fotovoltaici è attualmente in crescita, ma ancora del tutto insufficiente per poter garantire la produzione di idrogeno verde come carburante sostitutivo dell’energia fossile. Le prospettive più realistiche sembrano essere legate all’utilizzazione di carburanti meno inquinanti come il GNL (il cui rifornimento nei porti italiani dipende però dalle piccole navi metaniere, bettoline, provenienti dalla Spagna) e alla distribuzione di energia elettrica alle navi in sosta (a partire dalle navi crociera) direttamente dalle banchine connesse alla rete. Naturalmente tutto questo è legato alla modernizzazione delle flotte e alla disponibilità di forniture elettriche adeguate e sostenibili dal punto di vista dei costi: non a caso un recente studio Porti verdi: la rotta per uno sviluppo sostenibile, di Enel X e Legambiente (2021), ha messo bene in evidenza la necessità di un intervento pubblico per sostenere la riduzione delle tariffe elettriche. Investire sull’elettrificazione delle banchine è quindi importante ma le risorse a disposizione, se distribuite in misura diffusa, sono alla fine modeste e possono avviare soltanto iniziative sperimentali.
L’elettrificazione delle banchine va inserita in una prospettiva più ampia: non solo cold ironing, ma impiego dell’energia elettrica per le infrastrutture di movimentazione e automezzi, efficientamento energetico degli edifici, smart grid, automazione e digitalizzazione, intermodalità nave-ferro. Il porto può divenire un fattore di modernizzazione della mobilità nella città e nel territorio, di accelerazione del processo di elettrificazione del trasporto pubblico e privato, di diffusone della digitalizzazione e dell’automazione.
Per i porti dell’Italia meridionale il Recovery Plan mette in evidenza il loro ruolo per il turismo, ma questo, va detto, vale per tutto il sistema portuale nazionale: non solo per il traffico passeggeri e crocieristico, ma anche per la possibilità di riqualificare urbanisticamente le aree di waterfront. A differenza di quanto è accaduto in altre città europee, da Barcellona a Marsiglia, dove il decentramento ha consentito il recupero delle aree dismesse e la realizzazione di progetti strategici per lo sviluppo urbano, in Italia, dove i porti convivono con le città, i programmi di waterfront (tranne a Genova), non sono ancora decollati. Forse è giunto il momento di avviare un grande progetto di riqualificazione urbana integrato alla trasformazione green dei porti.
Il Recovery Plan ha previsto per la logistica integrata 0,36 miliardi finalizzati alla digitalizzazione, non molto, ma rappresenta un orientamento positivo da implementare ulteriormente per fare dei porti dei nodi avanzati sul piano tecnologico, dell’efficienza e del controllo dell’ambiente. La qualità ambientale delle aree portuali (green port) potrà consentire di superare la separazione tra porto e città, rendendo compatibile lo loro vicinanza attraverso un sistema integrato che ottimizza i loro servizi e le loro risorse. Porti e città, soprattutto nel contesto italiano, non possono che procedere insieme nella transizione ecologica e nello sviluppo.