Per l’Arabia Saudita e le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), il binomio critico virus-petrolio rappresenta una sfida davvero epocale. E non è eccessivo evocare la storicità di questo passaggio: questi stati fondano il loro patto sociale sulla rendita da idrocarburi e, più recentemente, hanno modellato la loro modernizzazione sul valore dell’internazionalizzazione (investimenti, mobilità di persone e merci, grandi eventi, infrastrutture civili, strategie di “branding” come strumento di promozione nazionale all’estero e in patria).
Covid-19, insieme al crollo della domanda e del prezzo del petrolio, costringono Riyadh e le capitali delle monarchie del Golfo ad accelerare il processo di trasformazione economico-sociale già avviato. Ma il futuro è già il presente e, soprattutto, non corrisponde a ciò che i monarchi del Golfo avevano immaginato. Infatti, le tante “Visions” già pianificate necessitano di significative ricalibrazioni, nei contenuti e nei tempi: uno sfasamento troppo prolungato fra ´realtà di oggi` e ´progetto di ieri` comporterebbe rischi economici, sociali e di sicurezza che Riyadh e le monarchie vicine non possono permettersi, specie in un’area geopolitica altamente competitiva, conflittuale e in cui gli Stati Uniti danno qualche segno di disimpegno anche militare (vedi l’annunciato ritiro di parte delle batterie di missili Patriot dall’Arabia Saudita).
Nel breve periodo, Riyadh e le monarchie vicine hanno puntato su liquidità, pacchetti di stimolo e parziale (re)introduzione di sussidi; ma nel medio-lungo periodo, i tagli alla spesa sono e saranno protagonisti. In tale contesto, sei macro-dinamiche di cambiamento emergono, tra problemi e potenzialità, nello spazio del CCG.
Grandi eventi, grandi spazi, grandi flussi: un modello (per ora) da ripensare. Arabia Saudita e monarchie del Golfo sono diventate punti di riferimento per l’organizzazione di grandi eventi (come conferenze, fiere, esposizioni, mostre e competizioni sportive), dal forte richiamo e impatto internazionale. Tra i moltissimi eventi cancellati o posticipati -per ora- all’autunno, vi sono due fiori all’occhiello della filosofia di “Vision 2030”, ovvero la Riyadh Travel Fair (fiera del turismo) e il Red Sea International Film Festival. Soprattutto, l’Expo 2020 di Dubai, con inizio previsto a ottobre, è stata rinviata al 2021 su proposta tempestiva degli stessi emiratini: l’esposizione universale svolge un ruolo-cardine della strategia economica e d’immagine della federazione degli EAU. Annullata anche la Qatar International Maritime Defence Exhibition, organizzata dalle forze armate qatarine: le fiere dell’industria della difesa nei paesi del CCG sono ormai diventate appuntamenti imprescindibili per il settore, tra contratti d’investimento, networking e alleanze di sicurezza. La trentesima edizione dell’International Book Fair di Abu Dhabi è stata rinviata al maggio 2021. Questo modello di “fare evento”, e il relativo indotto, necessita, almeno nel medio periodo, di essere ripensato, rafforzando per cominciare gli investimenti già presenti in digitalizzazione e le iniziative d’impresa e di creatività locale. Qualcuno ha già iniziato a sperimentare: la Art Dubai Fair è stata cancellata, ma anche riconvertita a piccola fiera-evento per artisti locali e regionali, nonché in iniziative on-line. E l’esposizione “Art in the Age of Anxiety”, la cui inaugurazione prevista alla Sharjah Art Foundation è saltata causa Covid-19, è però già riuscita a ricavarsi notevole spazio mediatico.
Aeroporti, porti e infrastrutture civili: l’impatto sulla connettività (e sui fondi dalla Cina). Non è ancora possibile misurare l’impatto di lungo periodo del binomio virus-petrolio sulle infrastrutture civili di Arabia Saudita e monarchie del Golfo. Né è possibile sapere se e come la Cina rimodulerà i finanziamenti alla Belt and Road Initiative (BRI) che passa anche per le coste della Penisola Arabica e che, indirettamente, si lega ai crescenti interessi sauditi, emiratini e qatarini nel Corno d’Africa. Al momento, commercio marittimo e soprattutto traffico aereo passeggeri (si pensi all’hub aereo di Dubai) hanno subito importanti perdite nell’area CCG, dove sono di casa tre delle principali compagnie aeree a livello globale (le emiratine Etihad ed Emirates, più la Qatar Airways che ha annunciato tagli a circa il 20% della forza lavoro). DP World, l’operatore portuale e logistico di Dubai, ha appena lanciato un ambizioso sistema di digitalizzazione del trasporto merci mediante un’unica piattaforma, con agevolazioni fiscali tra il 50 e il 70% per chi opera o vuole investire nelle Zone Economiche Speciali operate da DP World. Di certo, Arabia Saudita e vicine monarchie stanno investendo molto in connettività, nuove città e turismo. La costruzione ed espansione di porti commerciali, che esportano idrocarburi e merci soprattutto in Asia, è un trend che riguarda le coste saudite del Mar Rosso e lo stesso Golfo, che già registrava un sovraffollamento di progetti portuali (specie tra Iraq, Kuwait e Arabia, e tra Emirati e Oman). Se gli investimenti cinesi e asiatici nell’area CCG dovessero flettere significativamente, l’Oman e gli emirati del nord degli EAU (Ras al Khaimah, Ajman, Umm al Quwain e Fujairah) ne sarebbero i più colpiti. Oltre ai progetti infrastrutturali, Pechino è il primo partner commerciale dell’Oman: l’export petrolifero di Muscat in Cina è addirittura cresciuto nell’aprile 2020 rispetto al mese precedente, arrivando a sfiorare il 90% delle esportazioni totali di greggio omanita, anche se il prezzo è crollato di oltre il 30%. La partnership con la Cina ha fin qui permesso al Sultanato di coprire, con prestiti, buchi di bilancio sempre più grandi.
Expatriates e nazionali: reinventare il mercato del lavoro. Virus e petrolio stanno già cambiando il mercato del lavoro nella regione del CCG. La crisi sta infatti accelerando l’obiettivo della “nazionalizzazione” dei posti di lavoro, in primo luogo nel settore privato, occupati sinora dai lavoratori stranieri (gli expatriates), soprattutto asiatici. Infatti, la diversificazione economica post-idrocarburi prevede, nei programmi statali, la sostituzione della manodopera straniera con lavoratori nazionali, che hanno fin qui privilegiato il posto pubblico per competenze, reddito e prestigio. È un vero cambio di paradigma, pieno di incognite: per esempio, molti cittadini non hanno ancora l’expertise tecnica per sostituire i colleghi stranieri in alcuni settori. Né ambiranno mai a farlo, nonostante la crescita della disoccupazione tra i giovani nazionali: gli stranieri sono ancora la totalità, per esempio, nelle costruzioni. Ma chi si sta ammalando di Covid-19 in Arabia Saudita e nelle vicine monarchie è soprattutto un lavoratore straniero a basso salario, come i tanti che vivono nei sovraffollati compounds (situati alle periferie dei grandi centri urbani, industriali o dei cantieri), luoghi di incubazione del contagio perché il distanziamento sociale e le norme igieniche sono lì un miraggio. Proprio questi complessi abitativi per stranieri, spesso limitrofi a mercati, sono stati tra i primi a essere sigillati come “zone rosse” dalle autorità durante il lockdown, con misure restrittive ancora più forti che nel resto del paese: è accaduto per esempio nella zona di Al Ras (Dubai), nell’area industriale alle porte di Doha e a Muttrah, il distretto commerciale di Muscat in Oman. In Qatar, gli operai stranieri del cantiere dei Mondiali di Calcio 2022 sarebbero attualmente in congedo non pagato, con solo cibo e alloggio coperti; ma alcuni cantieri legati al grande evento sono ancora al lavoro nonostante il lockdown. Adesso, i governi stanno spronando le imprese private a sostituire i lavoratori stranieri con nazionali. Nel contesto di Covid-19, l’Arabia Saudita aiuta le imprese private in difficoltà sostenendo parzialmente lo stipendio dei lavoratori in esubero, ma non se si tratta di stranieri. Gli Emirati Arabi Uniti hanno emanato un regolamento che permette al datore di lavoro di mettere il lavoratore straniero in esubero (“redundunt worker”), riducendogli il salario o imponendogli il congedo annuale, mantenendogli solo vitto e alloggio in attesa di un nuovo impiego o del più probabile rimpatrio che gli emiratini stanno incoraggiando (soprattutto verso Pakistan e India). In Oman, una circolare governativa obbliga le compagnie di proprietà statale a sostituire i lavoratori stranieri con cittadini omaniti, sollecitando le imprese del privato a fare lo stesso “permanentemente”; per le compagnie private, è però vietato licenziare gli omaniti, anche in tempo di crisi.
Corsa alla sicurezza alimentare: il Qatar è già più avanti. Da qualche anno, la sicurezza alimentare era oggetto di strategie apposite in Arabia Saudita e nelle monarchie del Golfo, a causa della crescita demografica e dei consumi. Per esempio, Riyadh e le capitali vicine hanno molto investito in Africa Orientale (soprattutto in Sudan ed Etiopia, con coltivazioni e fattorie). I sauditi hanno lanciato nel 2012 Foodex (International Food and Drink Trade Exhibition), che si svolgerà in novembre a Jedda. Ma anche su questo tema, la pandemia ha ora un effetto acceleratore: in una delle poche decisioni concrete degli ultimi anni, il CCG (Qatar incluso) ha approvato la proposta del Kuwait di istituire un network per la sicurezza delle forniture alimentari, nonché dei medicinali. I fondi sovrani dell’area CCG hanno quindi destinato 200 milioni di dollari per investimenti nel settore agricolo, alimentare e delle relative tecnologie. Proprio il Kuwait (27esimo nel Global Food Security Index), ha registrato durante la crisi da coronavirus la temporanea “scomparsa” dal mercato interno di un alimento lì molto popolare, le cipolle, per approvvigionamenti ritardati da Egitto e India: stock di cipolle sono arrivate poi dallo Yemen e dal Sudan, ma ciò è bastato a convincere il governo kuwaitiano che è ora di agire. L’Arabia Saudita e i paesi del CCG importano circa l’80% del cibo consumato: esiste l’industria alimentare, ma non la produzione alimentare. Secondo le stime ufficiali, il consumo alimentare nel regno cresce a un ritmo del 6% annuo. Il Qatar, con una popolazione di soli 2 milioni di abitanti, ha fatto virtù dell’embargo, differenziando il più possibile le catene d’import e puntando sulla produzione interna: la compagnia nazionale Baladna (ovvero “il nostro paese”) sta guidando il progetto di autarchia alimentare ed è tra gli organizzatori della “Fiera dell’autosufficienza del Qatar” organizzata per la prima volta nel 2018 con 120 imprese qatarine. Secondo il Global Food Security Index 2019, il piccolo emirato (boicottato da sauditi, emiratini e bahreiniti dal 2017) è ora 13esimo per sicurezza alimentare, mentre gli EAU sono 21esimi e l’Arabia Saudita 30esima (Oman 46esimo, Bahrein 50esimo). Proprio gli Emirati Arabi hanno appena promulgato una legge per regolare la fornitura alimentare a livello federale: ma la raccomandazione è spingere sulla produzione interna. Nel 2018, gli EAU (con un ministro di stato dedicato alla sicurezza alimentare), avevano lanciato la National Food Security Strategy 2051. Sicurezza alimentare significa anche lotta agli sprechi: Mohammed bin Zayed Al Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi e vice comandante delle forze armate degli EAU, ha inusualmente richiamati i cittadini, in piena crisi-Covid, a un rapporto razionale con cibo, acqua, energia e risorse perché “abbiamo una cultura dell’eccesso che dobbiamo limitare”.
Il protagonismo della polizia tra lockdown e ruolo comunitario. In Arabia Saudita e nelle monarchie del Golfo, l’esercito non è fin qui sceso in strada per chiusure e coprifuoco, a differenza di quanto accaduto negli altri paesi mediorientali. Solo in Oman l’esercito è più visibile e, oltre a sanitizzare, gestisce checkpoints congiunti con la polizia attraverso il Sultanato. Dal 7 maggio, Riyadh ha dispiegato la polizia militare, specie nell’area settentrionale di Tabuk, per far rispettare le misure restrittive nel mese di Ramadan. L’esercito saudita ha organizzato ospedali da campo e si occupa del sistema di triage davanti alle strutture sanitarie. Invece, la polizia ha svolto ovunque un ruolo da protagonista: pattugliamenti, sanzioni, disinfezioni, distribuzione di generi di prima necessità, mascherine e guanti, campagne di sensibilizzazione anti-Covid rivolte soprattutto alla popolazione straniera. Da qualche anno, le forze di polizia dell’area del CCG, in particolare negli EAU, hanno avviato programmi di community-policing: l’emergenza sanitaria è anche un’occasione di avvicinamento tra polizia e comunità, con i poliziotti -anche nella narrazione ufficiale- nel ruolo di promotori della sicurezza, della solidarietà e del senso di responsabilità nazionale.
Il fenomeno dei volontari: il volto civile del nazionalismo. In tutte le monarchie del Golfo, i governi hanno lanciato, con molto successo, campagne per reclutare volontari, soprattutto tra i giovani. Medici, infermieri, impiegati nel settore dei trasporti, della logistica, della ristorazione, studenti stanno infatti dando un prezioso contributo volontario nella gestione dell’emergenza legata a Covid-19, sul campo (ospedali, ambulatori per i test, strutture di quarantena), oppure da remoto (sostegno alla comunità, sensibilizzazione e informazione sul virus). In Arabia Saudita, Qatar ed Emirati, il reclutamento passa attraverso campagne governative dall’eco nazionalista. In Kuwait e Bahrein, la fitta rete delle organizzazioni della società civile gioca un ruolo di primo piano e sono tanti i bidun jinsiyya (gli arabi senza cittadinanza), anche medici e infermieri, che in Kuwait stanno offrendo un apprezzato servizio come volontari non pagati. In Oman, il settore privato organizza iniziative soprattutto su scala locale (come la campagna “Let’s be bastions of Oman” nell’area di Sur). Da qualche anno, le monarchie del Golfo coltivano un crescente spirito nazionalista che dovrebbe sostenere i sacrifici della transizione post-oil, spesso declinato in senso militarista da emiratini, qatarini e sauditi, grazie al ruolo forze armate e a un linguaggio simbolicamente marziale. Adesso, il fenomeno dei volontari rappresenta il volto civile e civico del nazionalismo, che non esclude gli stranieri residenti: un “esercito di volontari” (per usare le parole di un quotidiano degli EAU) per il bene della comunità nazionale, costituito in primis da medici, infermieri, paramedici e psicologi, per sconfiggere la pandemia. Con lo slogan “siamo tutti responsabili”, l’Arabia Saudita ha raggiunto i 100 mila volontari; il Qatar ne ha raccolti 35 mila tra i 25 e i 40 anni. Sono più di 8 mila i volontari che hanno aderito alla campagna nazionale degli Emirati Arabi Uniti, lanciata a metà aprile nell’ambito del nuovo “Comitato nazionale per il volontariato durante le crisi”, struttura che sarà permanente e in sinergia fra governo, gruppi di volontari e business privato. L’emirato di Dubai aveva già ideato, in marzo, la campagna “Your city needs you…Volunteer for Dubai”, con il volto del principe ereditario di Dubai Hamdan bin Mohammed bin Rashid Al Maktoum che invitata i giovani nazionali e residenti alla responsabilità sociale.
In fondo, iniziativa, disciplina e senso di comunità nazionale sono ciò che i governi di Arabia Saudita e dell’area CCG chiedono ai cittadini per gestire la trasformazione economica-sociale post- idrocarburi. Ancora di più ora che il binomio virus-petrolio sta accelerando, e in parte riconfigurando, le sfide del presente e del futuro.