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Commentary

Primavere arabe, propaganda e radicalizzazione: act local, think global

12 febbraio 2016

Nel giugno 2014 il numero di foreign fighters, intesi come giovani combattenti stranieri convertiti all’islam radicale e partiti da varie realtà internazionali per combattere nei teatri iracheno e siriano al fianco di organizzazioni jihadiste come Jabhat al-Nusra e Daesh, era stimato a circa 12.000 unità provenienti da 81 diversi paesi. Nel 2015 il numero è più che raddoppiato, raggiungendo circa i 30.000 combattenti provenienti da almeno 86 nazioni. Questo flusso di miliziani coinvolge sette regioni del mondo dall’America settentrionale al Sud est asiatico con numeri altalenanti, dai 5000 combattenti originari dell’Europa occidentale ai 280 del nord America. 

Il fenomeno della radicalizzazione, che di certo non si è originato con le primavere arabe, rappresenta però ora una delle minacce globali, originate da un conflitto di natura locale, più significative. Per comprendere quindi nello specifico come oggi gli effetti del conflitto siriano iracheno colpiscano l’intero panorama internazionale tramite la radicalizzazione, è necessario focalizzare l’attenzione su due fenomeni macroscopici: globalizzazione e democratizzazione dell’informazione.

Società, culture ed economie diverse, nazionali e regionali (il Medio Oriente e il resto del mondo), sono sempre più interconnesse e interdipendenti grazie alla condivisione di una rete “globale” per il commercio, la mobilità e la comunicazione e alla democratizzazione dell’informazione che rende progressivamente sempre accessibili a tutti, in ogni luogo e momento, idee, opinioni, conoscenza, educazione e propaganda. In tutto ciò la tecnologia, rendendosi responsabile di uno stiramento della tradizionale dimensione spazio temporale, crea le condizioni perché eventi localizzati possano trasformarsi in minacce  globali come, nello specifico, il processo di radicalizzazione.

Uno dei più recenti fattori decisivi che ha contribuito all’intensificazione dei processi di radicalizzazione, conferendogli rilevanza globale, è sicuramente la forza della propaganda, sviluppata in una maniera inedita da parte di Daesh, sia in termini infrastrutturali e strutturali che strategici. Il tema della comunicazione di Daesh pare ormai essere passato alla storia e come tale, dimenticato o dato per scontato. Il fatto eclatante, la minaccia diretta e magari nazionale, le scene cruente sono ormai i pochi aspetti che scaldano i media che si abbeverano di pillole per documentare puntualmente quella che invece è una strategia molto più complessa e sulla quale poggia un disegno studiato per radicalizzare posizioni, sia ‘pro’, nelle figure dei combattenti e sostenitori di Daesh, che ‘contro’, in quelli che da loro vengono considerati infedeli e che si trovano spettatori di un fenomeno al quale non vorrebbero assistere. 

La propaganda scorre, ininterrotta, come un flusso dal quale gli interessati possono prendere ciò di cui hanno bisogno per radicalizzare o radicalizzarsi. Facendo solo il caso dei magazine, Dabiq, la pubblicazione ufficiale di Daesh, funge da ‘omogeneizzatore’ delle tematiche che trasversalmente caratterizzano il jihad: l’egira verso la Siria, la glorificazione dei martiri, la lotta agli infedeli, la rivendicazione degli attacchi, le prospettive di una vita all’ombra della bandiera nera. Tutte argomentazioni che forniscono materiale altamente ricco di appeal ad uso di potenziali sostenitori che vedono in Daesh una risposta credibile.

A questo main stream si affiancano sempre più frequentemente versioni ‘locali’ dei magazine che, sia per motivi linguistici che culturali, fanno da trait d’union tra le istanze più sirianocentriche e quelle delocalizzate dei diversi bacini di reclutamento. Infatti, a Dabiq, lanciato il 5 luglio 2014, fa seguito cinque mesi dopo Dar-al-Islam, magazine interamente in francese che nelle ultime edizioni ha dedicato molta attenzione ai temi di interesse dell’Europa centrale. Seguono poi, quasi contemporanee tra maggio e giugno dell’anno scorso, le prime edizioni di Konstantiniyye, redatto in turco che ha a ‘cuore’ Erdoğan e la questione curda, e  del periodico in lingua russa Istok, altro bacino interessante per Daesh. 

A queste pubblicazioni bisogna aggiungere la distribuzione di opuscoli e manuali, debitamente tradotti, e di prodotti multimediali sottotitolati o direttamente realizzati in lingua locale che fanno leva su aspetti prettamente nazionali o regionali, quali stimoli radicalizzanti. 

Le cause scatenanti del processo di radicalizzazione sono molto eterogenee e spesso necessitano di essere rintracciate all’interno di fenomeni ‘locali’ che, grazie all’interdipendenza globale sopradescritta, assumono importanza internazionale: povertà e ineguaglianza, che in Tunisia, a seguito della profonda crisi economica e dell’aumento della disoccupazione hanno spinto molte persone ad unirsi a Daesh in Libia in cambio di uno stipendio mensile pari a circa 500 euro al mese; marginalizzazione politica ed economica, come nel caso dei ragazzi radicalizzati nelle periferie londinesi o nelle banlieue parigine;  conflitti armati come quelli in Afghanistan, Iraq e Siria; presenti e passate strategie geopolitiche, delle quali l’accordo Sykes-Picot è solo uno dei molti esempi; repressione politica, di cui il regime egiziano di Sisi è rappresentativo e che sta recentemente causando la formazione di un’ala jihadista anche nei Fratelli musulmani; e ancora identità e dinamiche etniche e religiose, come il conflitto fra musulmani sciiti e sunniti che continua a dividere e insanguinare il Medio Oriente. 

Tuttavia, le motivazioni specifiche dei contesti locali che portano un individuo a radicalizzarsi,  necessitano di essere interpretate alla luce degli aspetti generali che una certa propaganda ‘globale’, che non si declina così marcatamente in maniera puntuale nello spazio geografico, fornisce come spunti d’ispirazione per un’attività più localizzata e in grado di portare argomentazioni più ‘vicine’ al pubblico specifico di riferimento e quindi più efficaci nel processo di reclutamento. 

Ma la crescita della radicalizzazione, anche in termini numerici di radicalizzati, non si limita all’aumento di coloro che sostengono Daesh. Quella che è stata definita “doppia radicalizzazione” infatti è ugualmente un risultato della propaganda Jihadista, che questa volta è diretta verso i nemici. Sempre più frequenti sono, infatti, spinte xenofobe e islamofobe ma anche processi di radicalizzazione interni ai musulmani a seguito delle violenze perpetrate da Daesh nei loro confronti. Ancora quindi, a 5 anni dell’inizio delle primavere arabe, risorgono come dopo un lungo inverno e sempre più insistentemente anche sulla propaganda quale mezzo di radicalizzazione quelle fazioni contrapposte che si celavano dietro la vetrina del cambiamento delle primavere. 

Alessandro Burato, ITSTIME, Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies
Marco Maiolino, ITSTIME, Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies

 

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Medio Oriente mediterraneo Primavera Araba foreign fighters radicalizzazione jihad Fratelli Musulmani
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