Circondato dalla sfiducia sulla sua effettiva capacità di adottare le riforme economiche necessarie a rilanciare il paese, Michel Temer ha iniziato il 1° settembre il suo mandato di presidente del Brasile. Il nuovo capo dello Stato ha l’obbligo di varare misure amare per evitare il collasso dei conti pubblici. Una cura necessaria, già annunciata nel suo primo discorso dopo l’insediamento, trasmesso a reti unificate. Ma soprattutto ha il dovere di pacificare la nazione, lacerata da anni di “guerra fredda” ideologica, che l’hanno profondamente divisa.
Per quanto riguarda l’aspetto economico, l’impeachment dell’ex presidente Dilma Rousseff, votato dal Senato federale di Brasilia con un risultato di 61 favorevoli e 20 contrari, porterà ad un cambio di marcia nel governo Temer. Il comportamento tenuto dall’esecutivo, che fino a questo momento era solo ad interim, è stato prudente, restio ad affrontare di petto le onerose richieste di aumenti salariali del settore pubblico, timoroso di vedere il paese paralizzato da scioperi durante le Olimpiadi, preoccupato di dover affrontare manifestazioni di piazza mentre al Senato si discuteva della messa in stato d’accusa della Rousseff. Gli aumenti sono stati concessi generosamente, i programmi sociali sono stati abbondantemente foraggiati, tutte le richieste (o ricatti) presentate da sindacati e associazioni di categoria accolte senza fare resistenza.
Ma ora che l’impeachment è stato approvato, il tono diverrà sicuramente più duro. Il bilancio pubblico brasiliano va risanato, e va fatto rapidamente. Ne va della stabilità macro-economica della settima economia del mondo. E sul riassetto dei conti si gioca anche la salvaguardia dei traguardi sociali raggiunti dai brasiliani negli ultimi vent’anni. A nulla servono programmi di redistribuzione diretta del reddito, come il Bolsa Família, se l’inflazione è fuori controllo, soprattutto quella del settore alimentare, la principale voce di spesa delle fasce più povere della popolazione.
Meno spesa e più investimenti. È questo il messaggio centrale della politica di austerità e ripresa della crescita lanciato dalla squadra economica guidata dal ministro della Fazenda (Economia), Henrique Meirelles. Una strategia che non prevede, in un primo momento, un aumento della pressione fiscale, già molto alta in Brasile, ma che impone l’approvazione entro la fine dell’anno della modifica costituzionale che stabilisce un tetto massimo per la spesa pubblica, indicizzata all’inflazione dell’anno precedente.
Se questa proposta venisse approvata, il fabbisogno dello stato brasiliano cesserebbe di crescere a valori reali, limitandosi ad un’espansione nominale. In un contesto di crescita economica si otterrebbe un impatto positivo sui conti pubblici addirittura superiore a quello del Plano Real nel 1994: non solo il controllo dell’inflazione ma anche un cambiamento della dinamica della spesa pubblica. Maggiore efficienza, gestione più razionale e (si spera) meno sprechi.
Più che il crollo del prezzo delle commodities o i segnali di aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti, il principale induttore della recessione in Brasile è stata la crescente incertezza sulla sostenibilità dei conti statali, a causa della lievitazione incontrollata di spesa e debito. Dal 1997 al 2015 la spesa pubblica brasiliana è cresciuta in media del 6% più del tasso d’inflazione. Nel solo 2014, per cercare di vincere le elezioni “in tutti i modi”, il governo Rouseff ha completamente dissestato il bilancio federale brasiliano, spendendo ben oltre quanto previsto dalla legge di bilancio approvata annualmente dal Congresso e realizzando operazioni di credito con banche pubbliche proibite dalla Legge di responsabilità fiscale. Proprio i due motivi per cui la presidente è stata condannata dal Senato. La traiettoria del debito pubblico è diventata naturalmente esplosiva, puntando dritta ad oltre il 90% del Pil. Il tutto con un servizio sul debito con tassi di interesse del 14,25%. Un livello insostenibile per qualsiasi economia.
Secondo il nuovo governo, un aggiustamento fiscale efficace spezzerebbe questo circolo vizioso, riconquistando la fiducia dei mercati internazionali e degli stessi imprenditori brasiliani, che da dieci trimestri hanno smesso di realizzare investimenti nel paese. L’obiettivo è superare l’attuale rapporto primario deficit-Pil del 3% (il rapporto nominale è al 9%, livelli da Grecia pre-fallimento) per riportarlo ad un surplus del 2%, così come è stato dal 2000 al 2014. Tuttavia, la situazione è più complessa. In primo luogo bisognerà manovrare in uno scenario di economia letargica, che rifiuterà qualsiasi aumento della pressione fiscale.
Tagliare le spese è quindi l’unica alternativa, ma si scontra con la realtà dei fatti. La Costituzione brasiliana prevede, infatti, che alcune voci di spesa aumentino automaticamente, come ad esempio salute, educazione, stipendi pubblici e pensioni. Il solo sistema previdenziale brasiliano presenta una contabilità devastante. Il Brasile ha soltanto il 7% della popolazione ultra-sessantacinquenne, ma spende oltre il 13% del Pil per pensioni. A queste condizioni, il solo deficit della previdenza sociale è previsto al 2,7% del Pil nel 2017. Un livello europeo in quello che dovrebbe essere un paese emergente.
Inoltre, i capitali stranieri non torneranno ad investire in Brasile solo grazie ai conti pubblici in ordine. Gli investitori si aspettano un business environment più favorevole. Il Brasile deve superare i colli di bottiglia (chiamati in portoghese “gargalos”) che strozzano la sua capacità di crescita. Tra questi vi sono infrastrutture inadeguate, una burocrazia soffocante, corruzione dilagante, giustizia elefantiaca e, soprattutto, un Codice di leggi del lavoro che risale agli anni Trenta. Un testo scritto sulla base della Carta del lavoro di Mussolini e mai modificato. Con regole di stampo corporativista è impossibile portare un’economia nel XXI secolo.
Ma la sfida più importante che attende Temer e il suo governo riguarda il tessuto sociale brasiliano, dilaniato da una guerra civile ideologica che si combatte con articoli di giornale, manifestazioni, convegni, film, spettacoli teatrali e soprattutto sui social network. Una esacerbata divisione concettuale in classi sociali: “i borghesi” da un lato e “il popolo” dall’altro. O, come nelle migliori tradizioni della goliardia brasiliana “i coxinhas” (un tipo di pietanza fritta in voga tra le classi alte) da un lato e le “mortadelle” (dal pane e mortadella offerto dai sindacati ai partecipanti delle manifestazioni) dall’altro. Una strategia politica delineata a tavolino dal Partido dos Trabalhadores (Pt) a fini sfacciatamente elettorali, per cercare di mobilitare le masse una volta compreso che i voti dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva non si sarebbero automaticamente riversati sulla Rousseff nelle elezioni del 2010 e del 2014.
La strategia ha dato i suoi frutti, e il PT ha vinto le ultime due elezioni presidenziali per una manciata di voti. Ma ha lasciato un’eredità maledetta, avvelenando il dibattito politico, generando un clima di intolleranza e esacerbando una tensione sociale già naturalmente presente in un paese come il Brasile, dove le differenze tra classi sono tradizionalmente ampie. Il brasiliano “uomo cordiale” descritto da Sérgio Buarque de Holanda nel suo libro “Raízes do Brasil” ha lasciato il posto ad un brasiliano “uomo astioso”, ostile a suoi compatrioti che semplicemente non condividono le stesse opinioni politiche. Un clima molto simile a quello sperimentato in Italia negli anni Sessanta e Settanta, alimentato dallo scontro ideologico feroce della guerra fredda.
Il governo Temer dovrà disinnescare questa bomba ad orologeria d’odio sociale, proprio in un momento in cui il Pt scatenerà la sua base elettorale e tutti i movimenti sociali ancora sotto la sua influenza per rendere i prossimi due anni un Vietnam politico per l’esecutivo. Dilma ha lasciato il Palácio da Alvorada, residenza ufficiale presidenziale, facendo rullare i tamburi di guerra: scandendo parole d’ordine e pronunciando un discorso di fuoco che si è concluso con “la lotta continua”. Il Movimento Sem Terra ha fatto sapere che realizzerà proteste “con il sangue agli occhi”. Nelle ultime 48 ore numerose manifestazioni in tutto il Brasile hanno bloccato strade e provocato gravi scontri con le forze dell’ordine. Mai nella storia del Brasile si era arrivati ad un clima così pesante. Sarà molto difficile riportare armonia in un paese che, per la prima volta, sembra aver imparato ad odiare.
L’impresa di riassestare conti pubblici devastati e riportare il Brasile alla crescita, in un paese intossicato dall’astio politico e in piena convulsione sociale, sarà una sfida gigantesca per un governo che parte già azzoppato da scandali e accuse di corruzione. Che ancor prima della sua conferma ha dovuto dimettere tre ministri accusati di malversazioni. Che dovrà schivare gli intrighi politici in un Congresso dove gli macchinazioni sono all’ordine del giorno. E che dovrà correre contro il tempo, sotto pressione da un elettorato e di una stampa che già lo guardano con scetticismo.
Carlo Cauti, giornalista italiano di base a San Paolo del Brasile. Collabora regolarmente con diverse testate italiane e brasiliane.