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Commentary

Prova del nove per la "potenza" Russia

Serena Giusti
30 maggio 2013

Il passaggio da URSS a Federazione russa oltre ad avere generato caos e instabilità all’interno del paese ha anche comportato una drammatica perdita di status a livello internazionale. Alla luce di questo declassamento devono essere decifrate molte delle azioni e dei lemmi del discorso politico della leadership russa sulla politica estera in cui ancora forte è la connessione tra storia, cultura e identità. Le presidenze di Vladimir Putin (2000-2008; 2012) hanno contribuito a ridurre il divario fra ruolo e status della Russia grazie in primis a una consistente crescita economica derivante principalmente dai proventi delle esportazioni di petrolio e gas e di una propizia congiuntura economica. La Russia è tornata a essere una potenza capace di esercitare la propria influenza non soltanto in un’area tradizionalmente di sua pertinenza come lo spazio post-sovietico ma anche su un ampio ventaglio di crisi in atto in teatri geopolitici diversi.

Il rafforzamento della leverage russa è anche speculare ad un indebolimento degli Stati Uniti in seguito agli attacchi terroristici del 2001 che hanno indotto Washington a reagire andando alla fonte del male. L’attivismo statunitense in Iraq edAfghanistan ha richiesto il sostegno della stessa Russia così come la sua capacità di dialogo con l’Iran è stata a lungo ritenuta vitale dai partner occidentali. Similmente, con l’apertura del fronte siriano, a seguito dell’ondata dei movimenti di rivolta nei paesi arabi, alcuni paesi occidentali, anche se non esplicitamente, hanno confidato nelle capacità di mediazione della leadership russa nei confronti del regime di Assad. Sebbene la strategia negoziale condotta dal Cremlino sia stata sinora fallimentare, tuttavia il paese ha offerto un'attenuante al tergiversare sia dei paesi europei che degli stessi Stati Uniti. L’ostruzionismo praticato dal Cremlino in ambito Onu ha inoltre fatto sì che nessuna risoluzione con eventuali implicazioni di hard power fosse adottata, sollevando di fatto i paesi occidentali da un indesiderato impegno militare.

La posizione di Mosca nel Consiglio di Sicurezza deve essere valutata alla luce dell’esito della crisi libica. L’intervento della Nato, che si è concluso con un cambio di regime in seguito alla uccisione di Gheddafi, ha corroborato la convinzione russa che le risoluzioni dell’Onu possano essere manipolate al fine di legittimare interventi il cui scopo è quello di promuovere mutamenti di regime che non sarebbero altresì consentiti dalla comunità internazionale. Putin ha affermato che «Ciò che è stato fatto in Libia è stata una tragedia in termini di relazioni internazionali» e ha ammonito l’Occidente a non ricorrere mai più «alla democrazia delle bombe e dei missili in Medio Oriente».

Si è detto anche che in Siria il Cremlino difenda i suoi interessi economici e geopolitici in linea con un approccio pragmatico alle relazioni internazionali. Dalla fine della guerra fredda la Russia è diventata il più importante fornitore di armi della Siria (il 75% delle armi siriane sono infatti di fabbricazione russa), anche se il mercato siriano non è tra quelli primari per Mosca (la Siria è solo

il settimo paese cliente). Di rilievo geostrategico nel Mediterraneo invece la piccola base logistica dotata di un sistema radar sofisticato che la Russia mantiene dai tempi dell’URSS nel porto siriano di Tartus. Riteniamo tuttavia che la difesa di tali interessi da sola non giustifichi l’opposizione russa, indipendentemente dai mezzi utilizzati, a un’eventuale destituzione del presidente Assad.

Il regime di Assad è infatti sostenuto dagli alawiti (un segmento degli sciiti presenti anche in Iran) ed una sua rimozione potrebbe rafforzare la componente sunnita (Al-Qaeda, i Fratelli musulmani, Hamas) con due gravi conseguenze: 1) non solo una eventuale ripresa dei movimenti secessionisti che all’interno della Russia sono promossi dai wahabiti (appartenenti ai sunniti), ma anche una saldatura di questi con i movimenti islamici radicali, questione su cui Putin ha richiamato l’attenzione della comunità internazionale dopo l’esplosione delle bombe alla maratona di Boston a cura di due fratelli di origine cecena; 2) un indebolimento eccessivo dell’Iran dove prevalgono gli sciiti. Nella crisi siriana la Russia intende infatti tutelare l’Iran, colpito dalle sanzioni di Unione europea e stati Uniti, con cui tuttavia Mosca continua a mantenere stabili relazioni. Per Mosca, Teheran costituisce una pedina strumentale per mantenere in tensione le relazioni con Washington e rafforzare il proprio potere negoziale.

La postura russa nella crisi siriana appare prevalentemente determinata dal desiderio di status, potere, e leverage. In particolare, le ultime mosse russe depongono a favore di questa chiave interpretativa. Il Cremlino ha annunciato che una task force navale della Flotta del Pacifico è entrata nel Mediterraneo. La formazione è composta dall’incrociatore ammiraglio Panteleyev, da unità da sbarco e da appoggio e probabilmente da un sottomarino nucleare. La flotta dovrebbe raggiungere il porto cipriota di Limassol e poi è plausibile che prenda la rotta verso la base navale di Tartus. A questa dimostrazione di forza si è aggiunta la notizia che Mosca starebbe per inviare sofisticati missili anti-aerei S 300 e per finalizzare la consegna a Damasco di numerose batterie Yakhont, missili anti-nave (lunghi quasi 22 metri e con un raggio d’azione di quasi 300 chilometri) che il paese arabo aveva ordinato nel 2007. Questa consegna alza la tensione internazionale in quanto gli Yakhont potrebbero ostacolare un eventuale blocco navale o l’attuazione di una no fly zone.

Di fronte alla reazione allarmata dell’Occidente, il ministro degli Esteri russo Lavrov ha espresso stupore: «Non abbiamo mai nascosto che forniamo armi alla Siria sulla base dei contratti già firmati, senza violare gli accordi internazionali o le nostre leggi». Il flusso di armi dalla Russia alla Siria è seguito con molta attenzione anche a Gerusalemme. Israele ha già condotto tre raid per distruggere materiale sensibile ospitato negli arsenali di Assad ed è pronto ad intervenire ancora per evitare che missili o altri equipaggiamenti ritenuti “strategici” possano essere trasferiti dalla Siria all’Hezbollah.

Intanto però la leadership russa riporta un primo successo diplomatico ossia la convocazione sotto l’egida dell’Onu e con gli auspici di Washington di una “Ginevra 2”, ossia una conferenza internazionale che riunisca regime e ribelli e probabilmente, così come richiesto da Mosca, tutti i paesi regionali e i vicini della Siria a partire da Iran e Arabia Saudita. Lo scopo è quello di arrivare a una road map per la nuova Siria e ad un accordo per formare un governo di transizione. Il presidente statunitense Obama alla presenza del Primo ministro turco Erdogan ha sostenuto che «i negoziati a Ginevra che coinvolgono i russi possono produrre risultati». La strategia di Mosca volta a prendere tempo, a rafforzare il proprio potere negoziale nei confronti di tutti gli attori chiave coinvolti in Medio Oriente e basata attraverso un controllato incremento della tensione e a dettare le regole della gestione della crisi secondo i suoi obiettivi sembra in queste ultime settimane funzionare.

In una crisi così complessa e suscettibile di produrre una drammatica destabilizzazione regionale con riverberi a livello internazionale, la Russia è determinata a giocare un ruolo decisivo che ne sancisca lo status di potenza globale e la riscatti dallo smacco subito in Libia. Se gli attori esterni si allineeranno con i tempi e le modalità proposte dal Cremlino e se gli attori regionali, inclusa la Siria di Assad, risponderanno effettivamente alle “sollecitazioni” russe ciò potrebbe condurre a una posizione comune che potrebbe non richiedere almeno per il momento un intervento militare. Il punto critico di una tale architettura diplomatica rimane l’ascendente di Mosca su Damasco. Una via di uscita dalla crisi siriana in cui il ruolo della Russia risulti vincente contribuirà anche a far rimontare in Russia il consenso per il presidente Putin.


* Serena Giusti, Associate Senior Research Fellow ISPI e docente di Istituzioni europee e politica estera russa, Università Cattolica Milano.
 
Vai al dossier: Siria: aspettando "Ginevra 2"

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Siria Russia Stai Uniti Putin conflitto armamenti crisi siriana Consiglio di Sicurezza Assad regime alawiti
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Autori

Serena Giusti
Associate Research Fellow

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