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Commentary
Prove tecniche di understretching? Obama, gli Stati Uniti e il discorso sullo stato dell’Unione
18 febbraio 2013

Dopo l’enfasi del discorso d’insediamento e il travagliato iter di ratifica di alcune posizioni-chiave dell’amministrazione, c’era considerevole attesa, dentro e fuori gli Stati Uniti, per il discorso sullo stato dell’Unione in cui Barack Obama avrebbe, di fatto, tracciato le linee-guida del suo secondo mandato presidenziale . Quello che ci si attendeva era, fra l’altro, un chiarimento sulle priorità della presidenza “2.0” in ambito internazionale, rimaste in ombra sia nel corso della campagna elettorale, sia nelle prime settimane di vita del nuovo esecutivo. Da questo punto di vista, tuttavia, le parole del presidente non sembrano avere del tutto dissipato l’incertezza che ha caratterizzato le scorse settimane. Seppur meno che in altre occasioni, anche questa volta il focus è stato soprattutto sulle questioni interne e, in particolare, su una situazione economica ancora difficile. È in questo quadro, in particolare, che si colloca l’annuncio (che pure rappresenta uno dei passaggi-chiave del discorso e che, prevedibilmente, ha destato ampio interesse in Europa ) del prossimo avvio di negoziati per l’istituzione «di una partnership transatlantica in materia di scambi e investimenti». Significativamente, tale annuncio è stato inquadrato nella prospettiva di un «commercio equo e libero fra le due sponde dell’Atlantico» destinato a sostenere «milioni di posti di lavoro ben retribuiti negli Stati Uniti» e nel quadro di una più ampia strategia di apertura commerciale, che vede al primo posto il completamento dei negoziati per la conclusione di una parallela partnership trans-Pacifica, destinata a «spingere le esportazioni americane, sostenere l’occupazione negli Stati Uniti e livellare il campo nei mercati emergenti dell’Asia».

Anche l’annuncio del ritiro del personale militare Usa dall’Afghanistan non è giunto del tutto inatteso, soprattutto alla luce della politica di contenimento della spesa militare che il nuovo segretario alla Difesa, Chuck Hagel (se confermato), sarà chiamato a implementare nei mesi a venire e a fare accettare a un Congresso che ha già manifestato riserve in tal senso . L’annuncio era stato ampiamente ventilato nei giorni precedenti. Com’è stato rilevato, tuttavia, sia l’entità del ritiro (34.000 uomini su un totale di 66.000), sia la sua tempistica, diluita nel corso dei prossimi dodici mesi, configurano “un delicato equilibrio” fra esigenze politiche e militari . Seppure più ampio e più rapido di quanto proposto a suo tempo dal generale Petraeus, esso non pregiudica in maniera significativa l’operatività delle forze statunitensi fino al termine della campagna estiva, come richiesto dal nuovo comandante delle forze in Afghanistan, generale Joseph Dunford. Parallelamente, l’annuncio dei negoziati in corso con il governo Karzai per la conclusione di un accordo nel campo dell’assistenza militare e dell’antiterrorismo («so that the country does not again slip into chaos, and … allow us to pursue the remnants of al-Qaida and their affiliates») assicura un coinvolgimento a lungo termine degli Stati Uniti nel futuro del paese. È comunque degno di nota come, subito dopo, il presidente abbia rilevato che, per affrontare la minaccia terroristica, gli Stati Uniti non hanno bisogno di mandare decine di migliaia dei loro figli e delle loro figlie all’estero», quanto di «aiutare paesi come Yemen, Libia e Somalia a provvedere alla propria sicurezza e [di] aiutare gli alleati che combattono il terrorismo, come abbiamo fatto nel Mali» .

Su questo sfondo, il riaffermato impegno a «rimanere saldamente a fianco di Israele nella ricerca della sicurezza e di una pace duratura» si staglia con evidenza, soprattutto nel suo saldarsi con il parallelo impegno a mantenere la pressione sul regime siriano e a sostenere i leader dell’opposizione «che rispettino i diritti di tutti i siriani». Non a sorpresa, lo Stato ebraico sembra tornato, nelle ultime settimane, il centro degli equilibri (e delle paure) regionali, in particolare a causa del riacutizzarsi delle tensioni con l’Iran e delle voci insistenti che darebbero per prossima un’azione unilaterale da parte di Gerusalemme (eventualmente anche senza il sostegno degli Stati Uniti), volta a risolvere con la forza il problema delle ambizioni nucleari di Teheran . Nonostante la replica scostante e apparentemente conclusiva della Guida Suprema, ayatollah Ali Khameni , le 

aperture del vicepresidente Biden, volte a rilanciare il dialogo bilaterale à tout azimut con l’Iran, anche in vista delle imminenti elezioni presidenziali, non hanno semplificato i rapporti fra Washington e Gerusalemme, già difficili a causa della (presunta) “freddezza” imputata al segretario alla Difesa in pectore, Hagel, rispetto alla questione della sicurezza dello stato ebraico. La complessa situazione politica di Israele (ulteriormente complicata dall’esito non risolutivo delle elezioni dello scorso 22 gennaio) contribuisce, inoltre, a fare del timore di un Iran nuclearizzato un potente punto di convergenza per la variegata coalizione che sostiene il primo ministro Netanyahu e, a Washington, a imporre alla issue un posto in agenda ancora più alto di quello che di norma occuperebbe per il suo peso nel sistema delle relazioni che legano amministrazione e Congresso.

Coerentemente con l’immagine veicolata in campagna elettorale e con le dichiarazioni che hanno accompagnato l’insediamento della nuova amministrazione, gli Stati Uniti delineati nel discorso sullo stato dell’Unione appaiono, quindi, impegnati soprattutto in uno sforzo di recupero della loro “leadership morale”; una strategia che, per molti aspetti, mira a fare di necessità virtù, ma che non trascura di strizzare l’occhio ai fautori di una postura più attenta alle «nuove sfide alla sicurezza». L’attenzione all’ambiente, alla non proliferazione e alla collaborazione con la Russia (tradizionali cavalli di battaglia dell’amministrazione Obama) si lega, così, a temi prima solo in parte accennati, come quello della cybersecurity, che, negli ultimi tempi, sembra avere sperimentato un picco d’interesse nei media statunitensi. L’impressione che emergere è quella di un paese che, con crescente chiarezza, guarda al multilateralismo come a un possibile strumento per risolvere i suoi problemi interni. Il fatto che «nella difesa della libertà» gli Stati Uniti rimangano «l’ancora di solide alleanze dall’America all’Asia, dall’Europa all’Africa» non intacca la convinzione che il ruolo di Washington sia essenzialmente di sostegno, sia nei confronti degli alleati, sia degli altri interlocutori. Ciò non dissipa, però, il sospetto che la nuova amministrazione sia ancora impegnata nel difficile processo di ricerca di una propria strada nel mondo; un processo reso più arduo dai compromessi cui il presidente e il suo entourage hanno dovuto scendere per coprire alcune posizioni-chiave e dalla necessità di gestire parallelamente una serie di sfide che, ereditate dal primo mandato, si impongono oggi a Barack Obama come altrettante cambiali da onorare.

 

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