Le principali banche centrali percorreranno il 2020 cercando l’equilibrio fra conservazione e rivoluzione. Non sono infatti probabili grandi cambiamenti nelle politiche che metteranno in atto, mentre ci sarà un dibattito sull’opportunità di cambiarne più o meno radicalmente le strategie negli anni successivi.
Le previsioni del 2020 stimano che tassi di interesse e immissioni di liquidità non dovrebbero subire svolte importanti nei prossimi 3-4 trimestri. Abbandonare il tono espansivo delle politiche monetarie significherebbe mettere in difficoltà i mercati finanziari che già sopportano l’incertezza dell’economico-politica mondiale. L’espansione dei debiti, particolarmente forte in molti paesi emergenti e nel settore pubblico di alcune economie avanzate, ha infragilito la finanza internazionale: alzare il costo della liquidità e razionarne la disponibilità provocherebbe difficoltà e frenerebbe ulteriormente la crescita della produzione e del commercio
internazionale. Il rigonfiamento dei prezzi dei titoli, pur distribuito diversamente nel mondo, esige il sostegno di tassi bassi e liquidità abbondante per evitare crolli delle borse.
In generale i mercati non prevedono, nel breve periodo, rilevanti mutamenti delle politiche in corso. Le politiche monetarie molto espansive che hanno preceduto e seguito la grande crisi del 2007-2008 hanno finito, in un certo senso, per intrappolare se stesse rendendo difficile e pericoloso un cambio di rotta. La politica monetaria più importante, quella statunitense, ha abortito un tentativo di abbandono dell’espansione monetaria nel 2013; è poi riuscita a riprendere molto gradualmente il rientro dell’espansione ma nel 2019 ha interrotto e invertito il graduale rialzo dei tassi.
Dopo aver adottato misure eccezionali per situazioni eccezionali, le banche centrali avvertono i limiti della loro efficacia: l’inflazione stenta a risalire ai livelli cui esse mirano e crescono gli effetti collaterali indesiderati degli strumenti non convenzionali che hanno adottato, come il quantitative easing e i tassi negativi. Ma tornare alla normalità è difficile e controverso. Il fatto di essere finiti in questa “trappola” sembra richiedere riflessioni sulle strategie monetarie da seguire nel medio-lungo termine. Si avverte l’esigenza di rinviare le decisioni di breve termine e organizzare prima “revisioni strategiche” – così denominate ufficialmente – già iniziate da alcuni mesi negli Usa e in Canada e preannunciata dalla BCE.
Si tratta di riesaminare obiettivi, strumenti, forme di comunicazione e relazioni istituzionali delle banche centrali. Le quali vorrebbero anche smettere di sentirsi responsabilizzate per il rilancio della crescita che ritengono spetti ora alle politiche fiscali, alle riforme strutturali che accrescono la produttività, al miglioramento delle relazioni internazionali. Il ruolo delle politiche monetarie è anche interrogato dall’acutizzarsi di diseguaglianze economiche fra cittadini, regioni e professioni, favorite anche dai tassi bassi e borse sostenute. Le strategie delle banche centrali debbono inoltre attrezzarsi per tener conto di fatti radicalmente nuovi: dall’emergere delle monete elettroniche alla necessità di controllare gli effetti del ri-orientamento degli investimenti conseguente ai mutamenti tecnologici e alla necessità di reagire al cambiamento climatico. Dovremmo dunque attenderci per qualche tempo continuità con le politiche attuali fino a quando eventuali novità emergeranno dal riesame della strategia.
Dal punto di vista monetario il Canada non è un paese importante ma è da tempo il caso-scuola per la revisione strategica. Infatti la strategia della banca centrale è parte di un accordo formale col governo che viene rinnovato ogni 5 anni. L’attuale accordo scade alla fine del 2020 e da tempo è in atto un programma di seminari, conferenze, consultazioni allargate ai cittadini, ricerche specifiche, per preparare il nuovo accordo. D’altra parte in Canada l’inflazione è stabile al livello desiderato, le politiche monetarie sono state meno violente e più convenzionali che in USA o in Europa e i dubbi sulle strategie convenzionali sono meno accentuati.
Negli USA la revisione è stata annunciata alla fine del 2018, sono in corso numerose iniziative di ricerca e discussione e le conclusioni sono previste per la metà del 2020. Per l’enorme importanza globale del dollaro e della finanza americana, la politica monetaria statunitense influenza molto quella del resto del mondo e tende anche ad esportarvi i suoi problemi. L’ideale – difficilmente realizzabile vista la crisi del multilateralismo – sarebbe riconsiderare le strategie con una concertazione fra le principali Banche Centrali.
L’inflazione e il tasso di crescita degli USA sono vicini ai livelli desiderati anche se non è chiara la loro sostenibilità date le incertezze derivanti da un deficit pubblico elevato e crescente, il clima politico delle elezioni presidenziali, le tensioni geopolitiche globali e i pericoli di instabilità finanziaria insiti nei rischi di crediti e titoli gonfiati dalla speculazione. Anomala e pericolosa, per il disordine monetario e valutario che potrebbe creare, è la polemica del presidente USA Donald Trump contro la Fed, che ne minaccia l’indipendenza e preme per ribassare i tassi più rapidamente e per contrastare il tendenziale rialzo del dollaro derivante dalla sua natura di moneta-rifugio nelle fasi rischiose dell’economia mondiale. Di fatto, in dicembre 2019 la Fed non ha voluto variare i tassi e si prevede che nel 2020 tenda a mantenerli ai livelli attuali o, se l’economia risultasse più debole delle aspettative, di poco inferiori.
Nell’Eurozona il riesame strategico, annunciato dalla nuova Presidente della BCE Christine Lagarde, coinvolgerà il Parlamento europeo, politici, accademici e società civile. L’agenda dovrebbe essere pronta entro gennaio e la revisione completata entro l’anno. Il dibattito strategico aiuterà a rinviare al 2021 le decisioni sui tassi e sul quantitative easing che hanno visto crescere, dagli ultimi mesi della presidenza Draghi, le divergenze di opinione anche nel Consiglio Direttivo della banca centrale. Si va da chi considererebbe addirittura un intensificazione degli acquisti di titoli e un ulteriore ribasso dei tassi, compresi quelli che già da tempo sono sottozero, a chi ritiene giunto il momento di rientrare nella normalità rialzando gradualmente i tassi e sospendendo il quantitative easing. Fatto sta che, se tensioni e rischi di varia natura causassero sintomi di crisi finanziaria globale, cosa che nessun analista è in grado di escludere, avendo già una politica monetaria fortemente espansiva l’eurozona non potrà reagire aumentando violentemente la liquidità come fece dopo le crisi del 2008 e del 2011.
Il terzo paese del mondo, per importanza monetaria, è il Giappone, dove i tassi della politica monetaria sono da anni nulli o negativi e la quantità di moneta cresce vertiginosamente insieme agli acquisti di titoli obbligazionari e azionari della banca centrale. Ciononostante l’inflazione e la crescita ristagnano. Non traspaiono intenzioni di svolte congiunturali o strategiche della politica monetaria. Anche in Giappone l’arma monetaria per affrontare un’eventuale grave crisi economico-finanziaria internazionale è consumata.
Non vi sono altre politiche monetarie con rilevanza globale. Tradizione vorrebbe che si menzionasse il Regno Unito che si trova però, con Brexit, in una condizione di elevatissima incertezza in tutta la sua politica economica. Crescente rilievo assume la finanza della Cina, dove la politica monetaria deve affrontare sia il rallentamento della crescita che la fragilità degli intermediari finanziari impegnati con un’economia altamente indebitata. Ma i suoi riflessi globali sono ancora limitati e la trasparenza delle politiche di Pechino non è sufficiente per fare significative previsioni.