Agli antipodi. Basterebbero queste due parole per riassumere le idee di politica estera espresse finora pubblicamente dai candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump e Hillary Clinton.
Il frontman repubblicano, magnate eccentrico e senza peli sulla lingua, è quello che al momento dà l’idea di poter riservare le maggiori sorprese qualora fosse eletto alla Casa Bianca.
Il suo mantra, capace di fare breccia nella working class d’oltreoceano, è stato finora quello di voler “rendere di nuovo grande l’America” (“make America great again”), attraverso un nazionalismo che secondo i suoi detrattori potrebbe declinarsi in vero e proprio isolazionismo.
“America first”, “prima l’America” ha ripetuto Trump in questi mesi, lasciando intendere che la sua possa essere una presidenza di rottura rispetto alle più recenti.
Sono ormai conosciute le idee dell'imprenditore sulla Nato, considerata, al pari di altri consessi internazionali, un organismo anacronistico e troppo costoso per gli americani e che, soprattutto, non contribuirebbe davvero all'interesse nazionale di Washington.
Per Trump, gli Usa dovrebbero provvedere alla loro sicurezza senza curarsi troppo di quella degli altri, abdicando cioè a quel ruolo di “poliziotto del mondo” e “esportatore della democrazia” rivestito sin dalla Seconda guerra mondiale, che li avrebbe costretti a intervenire anche laddove il pragmatismo e i calcoli economici lo avrebbero sconsigliato. Ad esempio in Medio Oriente, scivolato nel caos e diventato culla di vecchi e nuovi estremismi, come al-Qaeda e lo Stato Islamico, che Trump vorrebbe fermare non con le bombe, ma con un taglio netto alle loro fonti di approvvigionamento economico.
Oggi gli Stati Uniti – questa la tesi di Trump – spendono troppo per la protezione dei loro partner, che invece non farebbero abbastanza per essere dei validi alleati (qualcosa che si avvicina molto all’appello ai governi europei, più volte fatto dall’amministrazione Obama, a raggiungere il 2% del pil di spesa nel settore della Difesa).
Sarebbe invece più utile, secondo l’immobiliarista, proporsi al pianeta come gigante prospero, autonomo e tecnologicamente avanzato. Gli Usa dovrebbero quindi fare della forza economica e non dello strumento militare – da usare solo in caso di attacco domestico o di violazione delle regole costituite – la loro vera arma di deterrenza e riduzione delle tensioni, negoziando di volta in volta gli accordi più vantaggiosi possibili, senza legarsi mani e piedi con improbabili alleanze.
Una critica che, con un fendente alla presidenza democratica da un lato e una strizzata d’occhio alle lobby ebraiche dall’altro, Trump rivolge riferendosi all’accordo raggiunto dalla Casa Bianca con l’Iran, nazione alla quale, a suo parere, non dovrebbe essere consentito di avere armi nucleari.
Fulcro di questa visione, che rifugge il "globalismo" ma si pone comunque su un piano "globale", sarebbe un avvicinamento degli Usa alla Russia e alla Cina, Paesi con i quali interloquire per coltivare interessi comuni. Anche se è lecito attendersi che Trump possa fare dietro front su molti di questi propositi propagandistici, come quello di innalzare un muro ancora più alto tra gli Stati Uniti e il vicino Messico.
Diametralmente opposta la visione della Clinton che, forte della sua esperienza di First lady prima e Segretario di Stato poi, si pone come interprete più credibile di una politica estera americana equilibrata e autorevole.
Nonostante la candidata democratica non abbia lesinato critiche, anche dure, all'operato del suo compagno di partito Barack Obama, le sue idee sono considerate molto vicine a quelle del presidente americano e potenzialmente in continuità, seppur con qualche sfumatura.
Ad esempio, a differenza dell'ultimo inquilino della Casa Bianca, Hillary Clinton potrebbe essere fautrice di un maggior interventismo americano in alcuni fronti delicati, rimettendo una leadership americana forte al centro degli equilibri mondiali.
In parole povere: meno multilateralismo, cifra distintiva dell'amministrazione Obama nella gestione delle crisi internazionali; polso più duro nei confronti di attori considerati poco affidabili come la Russia; e condizioni più stringenti che non escludano sanzioni a Paesi come l'Iran.
Tra i punti di convergenza in politica estera tra l'ex First lady e il capo di Stato uscente ci sarebbero invece: un proseguimento del riposizionamento americano nel Pacifico e una politica meno tollerante nei confronti dell'attivismo cinese (il cosiddetto Pivot to Asia voluto da Obama fu messo in atto proprio dalla Clinton); una contestuale rielaborazione dell'impegno in Europa, seppur continuando ad assegnare alla Nato una sua specifica centralità nei rapporti transatlantici; un'attenzione particolare a dossier che potrebbero coinvolgere l'interesse Usa, come la crisi in Medio Oriente, l'immigrazione dal Nord Africa verso il Vecchio Continente e, probabilmente, anche la Brexit; un rilancio di accordi economici e geopolitici come il Ttip.
Difficile dire quale delle due visioni sarà più apprezzata dai cittadini americani, anche se l’esperienza suggerisce che – quando si trovano nell’urna – gli elettori Usa assegnano in genere un’importanza relativamente bassa a ciò che accade oltre i confini degli Stati Uniti.
Michele Pierri, Direttore della rivista Cyber Affairs