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EUROZONA

Quale scudo anti-spread?

Franco Bruni
17 giugno 2022

Le decisioni prese dalla BCE nella riunione del 9 giugno hanno deluso chi si attendeva, assieme all’interruzione degli acquisti di titoli di Stato e al rialzo dei tassi di interesse, la conferma delle voci che avevano preannunciato un cosiddetto “scudo anti-spread”. Con ciò si intende un meccanismo di qualche tipo col quale la banca centrale calmiera le differenze fra i rendimenti dei titoli di Stato emessi dai diversi Paesi membri dell’eurozona. L’Italia è il più importante fra quelli che potrebbero averne bisogno. Di fatto il nostro spread rispetto ai titoli tedeschi si è impennato più degli altri dopo la riunione. Qualcuno ha prefigurato una “sfida” dei mercati per testare fino a che punto la BCE esita a intervenire con uno scudo quando gli spread crescono.

Sotto la pressione dei mercati, il Consiglio direttivo della BCE è tornato a riunirsi sei giorni dopo, formalizzando la decisione di studiare le modalità dello scudo e, nel frattempo, di voler concentrare in acquisti di titoli dei Paesi con spread elevati i proventi che risulteranno dallo scadere dei titoli finora acquistati col programma speciale di fornitura di liquidità per fronteggiare le conseguenze della pandemia. Le reazioni dei mercati sono state prima positive, poi di nuovo incerte, sia perché nel frattempo la FED statunitense, per combattere dati sempre peggiori sull’inflazione, ha mostrato ben altro decisionismo, aumentando i tassi più delle attese, sia perché anche le decisioni della seconda riunione della BCE sono apparse a molti troppo deboli. Lo spread fra i titoli italiani e tedeschi è comunque diminuito di una ventina di punti anche perché i tassi tedeschi sono in tensione: aumentano rapidamente risentendo anche del forte aumento di quelli statunitensi. L’inversione delle politiche monetarie si diffonde nel mondo e l’Italia è fra i Paesi che più ne risentono.

 

Il whatever it takes e le OMT

È opinione diffusa che uno “scudo” sarebbe opportuno per evitare che l’inversione di tendenza della politica monetaria colpisca in modo eccessivo i Paesi più indebitati. L’esagerazione dello spread può derivare da speculazioni che non trovano giustificazione sufficiente nell’indebitamento del Paese, per quanto particolarmente elevato. È stato così nella crisi del 2012, quando si arrivò a mettere in dubbio la sopravvivenza dell’euro con l’uscita dei Paesi più in difficoltà, fra cui l’Italia. Fu allora che Mario Draghi, che presiedeva la BCE, pronunciò il suo famoso whatever it takes col quale, in sostanza, impegnava la banca a intervenire sul mercato dei titoli di singoli Paesi per calmierare gli spread. Il che sarebbe avvenuto, se necessario, con le “Outright Monetary Transactions” (OMT), acquisti condizionati da speciali impegni che il Paese beneficiario dello scudo avrebbe dovuto prendere in accordo col Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) che ne avrebbe sorvegliata l’applicazione. Non fu però necessario intervenire effettivamente perché bastò la credibilità dell’annuncio per frenare la speculazione e ricondurre gli spread a misure non esasperate e compatibili con le differenze nei fondamentali dei Paesi e col loro grado di indebitamento. L’effetto stabilizzante dell’annuncio cominciò subito, prima che fosse comunicato lo strumento (le OMT) col quale sarebbero stati realizzati.

Anche questa volta la BCE ha annunciato e promesso interventi ma con una credibilità che non sembra riuscire a compensare la debolezza dell’annuncio. La presidente Christine Lagarde non ha menzionato le OMT e ha detto solo che lo scudo allo studio è diretto a “combattere i rischi di frammentazione dell’eurozona” per “preservare il funzionamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria”.

 

La ratio dello “scudo”

Che cosa autorizzerebbe la BCE a intervenire a favore di singoli Paesi senza essere accusata, come ha fatto in passato la Corte costituzionale tedesca, di andare oltre il suo mandato con politiche asimmetriche e redistributive che appartengono più alla politica fiscale che a quella monetaria? Draghi legò intimamente il suo whatever it takes, e quindi l’eventuale ricorso agli interventi con OMT, alla responsabilità istituzionale della BCE per l’integrità dell’euro, che è interesse comunitario. Questa responsabilità era rimasta fino ad allora troppo implicita. Nella giustificazione era confortato dal fatto che molti ammettevano esplicitamente di considerare la possibilità che l’euro si spezzasse. L’uscita della Grecia era stata a un certo punto contemplata quasi ufficialmente dal ministro delle Finanze tedesco. Era d’aiuto anche la teoria delle aspettative autorealizzantesi con la quale i libri di testo e gli analisti dei mercati spiegano l’insolvenza di un debitore sovrano. Il suo annuncio mirò con successo a sconfiggere quel tipo di aspettative. L’intenzione esplicita non era di annullare gli spread ma di ricondurli a misure spiegabili con i fondamentali del Paese e le dimensioni relative del suo debito.

Nel caso dell’Italia, ad esempio, il differenziale dei rendimenti dei BTP a 10 anni col corrispondente tasso tedesco aveva ampiamente superato i 5 punti dei quali forse la metà poteva considerarsi eccessiva in quanto dovuta ad aspettative di un’uscita dell’Italia dall’euro che la BCE dichiarava inammissibili. Infatti, dopo l’annuncio, lo spread italiano scese rapidamente verso livelli spiegabili con le normali conseguenze del maggior indebitamento del Paese. Ovviamente nel ragionamento alla base dell’annuncio di Draghi e del meccanismo delle OMT, nonostante la sua correttezza e la coerenza col mandato della banca centrale, la frazione di spread da considerarsi eccessiva e quindi eliminabile senza dare natura fiscale all’azione monetaria, rimane inevitabilmente discrezionale. Resta però nei limiti della dose di discrezionalità che non può negarsi all’autorità monetaria. Inoltre,  il fatto che le OMT siano condizionate a un accordo con il MES, con impegni di politica economica rispondenti ai criteri della disciplina comunitaria dei bilanci pubblici, toglie alla BCE la responsabilità di prendere un rischio-Paese che non rientra fra i suoi compiti.

Più recentemente l’ipotesi di interventi anti-spread ha fatto leva su un ragionamento in qualche misura diverso, più ampio e complesso. Si è messa in luce non tanto la necessità di evitare la rottura dell’euro con la “ridenominazione” dei debiti in monete nazionali quanto l’opportunità di ridurre la frammentazione dei mercati finanziari dell’eurozona in comparti “nazionali” che li rendono diversamente sensibili alla politica monetaria comune. Si tratta cioè di favorire una diffusione il più possibile omogenea degli impulsi dati dalla BCE alla liquidità dell’area e al conseguente livello dei tassi di interesse sulle diverse attività finanziarie. Se ad esempio la banca centrale vuole espandere il credito e renderlo meno caro, ha il dovere di fare in modo che ciò avvenga dappertutto nella stessa misura, senza che le speciali condizioni di alcuni Paesi li isolino, causando differenze nell’impatto della politica monetaria sui loro mercati finanziari interni. Non c’è dubbio che anche in questo caso di tratta di un obiettivo coerente col mandato della banca centrale e che è corretto perseguire, nell’interesse comunitario, ricorrendo a eventuali speciali forme di intervento mirate a specifici Paesi membri.

La BCE ha già da tempo adoprato a questi fini sia speciali operazioni di finanziamento delle banche che, soprattutto dopo lo shock pandemico, dosaggi flessibili degli acquisti di titoli dei suoi programmi di quantitative easing. Questi programmi non sono diretti a correggere gli spread dei tassi nazionali ma a variare la liquidità totale dell’eurozona e influenzare il suo costo nella stessa misura per tutti. Quindi l’ammontare totale dei titoli di ogni Paese che la BCE progetta di acquistare è proporzionale al peso del Paese nell’eurozona. Ma è possibile accelerare o rallentare gli acquisti dei titoli di alcuni Paesi in modo da superare fasi in cui la segmentazione li espone diversamente alla politica comune. Se ad esempio la pandemia colpisce in modo più grave l’economia italiana e i suoi equilibri finanziari, la BCE può accelerare per qualche tempo gli acquisti programmati dei titoli italiani rallentando quelli di titoli tedeschi. Nel far questo cerca di superare la tendenziale segmentazione dei mercati e ottenere, paradossalmente, maggiore uniformità nel suo impatto proprio differenziando la velocità dei suoi interventi. Come per l’entità delle riduzioni degli spread con le OMT, anche in questo caso, pur nella correttezza dell’approccio al problema, la quantità e la durata della flessibilità degli interventi è inevitabilmente discrezionale, forse più difficile da parametrare senza incorrere in critiche di asimmetrie di tipo “fiscale”. In questo caso, inoltre, i Paesi beneficiari del supporto straordinario e temporaneo della BCE non devono sottoscrivere condizioni circa le proprie politiche. Il che facilita la speditezza degli interventi ma espone la BCE, per periodi limitati, a rischi-Paese formalmente maggiori.

 

Le decisioni della BCE

Nella situazione attuale la BCE ha deciso di intervenire subito con un intervento del tipo appena descritto, ma dove la flessibilità degli interventi è applicata ai reinvestimenti dei titoli in scadenza del suo portafoglio. Si tratta però di un ammontare limitato e non si sa nulla del meccanismo più duraturo e innovativo che è allo studio.  In ogni caso non sarà facile giustificare la misura della riduzione degli spread cui gli interventi mireranno, né assicurare adeguata trasparenza all’asimmetria dei rinnovi. Anche l’assenza di condizioni di politica economica, per godere di temporanee preferenze nei rinnovi, può suscitare dubbi e critiche.

Non è chiarissima la ragione per cui la BCE pare orientata a inventare nuovi modi per combattere gli spread eccessivi anziché ricorrere alle OMT, cioè a un tipo di intervento che ha a suo tempo disegnato proprio a questo scopo, che non ha mai avuto bisogno di utilizzare ma le cui caratteristiche sono già codificate nel suo armamentario. Uno strumento che sembra più lineare e trasparente, meno criticabile anche perché, appunto, esiste già. Forse la ragione è il fatto che le OMT sono operazioni condizionate a un accordo col MES circa le politiche economiche e di bilancio da seguire. Sia i politici che i mercati hanno da tempo espresso perplessità sul modo troppo brusco col quale il MES ha imposto aggiustamenti gravosi ai Paesi che ha aiutato durante la crisi dell’eurozona del 2010-12. Il caso esemplare è quello della Grecia. Un accordo col MES per ricevere l’assistenza della BCE sembrerebbe dare al Paese che lo fa una sorta di “stigma” negativo e rischierebbe di sottoporlo a politiche troppo severe.

Il problema può apparire aggravato dal fatto che il Patto di Stabilità e Crescita è sospeso da più di due anni e non può quindi più servire da riferimento per il condizionamento, che diventerebbe troppo discrezionale e politicizzato. Rinviare troppo la reintroduzione di un Patto ben riformato è probabilmente un errore, basato su un equivoco: l’idea che reintrodurlo aggravi la situazione dei maggiori debitori come l’Italia. In realtà, un Patto configurato in modo innovativo, come ipotizzano proposte da tempo sul tavolo a Bruxelles, aumenterebbe la credibilità di chi potrebbe allora assicurare che gli aggiustamenti che programma sono concordati e controllati dalla Commissione.

Condizioni per ricorrere allo scudo delle OMT

Per ricorrere alle OMT, prima che sia raggiunto l’accordo politico necessario alla riforma e reintroduzione del Patto, occorrerebbe che le condizioni richieste dal MES riflettano la situazione eccezionale in cui le finanze pubbliche di tutti i Paesi si trovano in seguito allo shock pandemico, la guerra ucraina e, più in generale, all’improvvisa urgenza con cui si sono manifestate le grandi esigenze delle transizioni energetiche, ambientali e digitali.

In seguito al varo del Next Generation EU (NGEU) i Paesi membri hanno preparato impegnativi programmi di riforme, aggiustamenti e investimenti che le autorità comunitarie hanno condiviso e approvato avviando le erogazioni di prestiti e trasferimenti condizionati alla puntuale esecuzione di quei programmi. Inoltre, anche in condizioni di sospensione del Patto, la Commissione esamina i budget dei Paesi membri e si pronuncia con raccomandazioni specifiche e spesso dettagliate che i Paesi dovrebbero rispettare e che riguardano la finanza pubblica non meno che diverse politiche strutturali. Il profilo programmato per la finanza pubblica italiana vede significativi avanzi primari e la discesa del rapporto debito/Pil. Dovrebbe essere possibile far coincidere le condizioni del MES all’accesso alle OMT col rispetto sia dei programmi NGEU sia dei budget nazionali, eventualmente prolungati di qualche anno, e delle raccomandazioni della Commissione. Se un Paese membro li rispetta e non fa richiesta di altri prestiti di emergenza al MES, l’accesso alle OMT potrebbe risultare automatico in base alle norme vigenti.

Va notato che quando le OMT vennero disegnate era normale pensarle associate alla richiesta di finanziamenti di emergenza da usare durante speciali percorsi di riaggiustamento dei quali il MES avrebbe controllato l’esecuzione. La situazione attuale permetterebbe invece di considerare l’accordo col MES solo come un “timbro” di garanzia per l’accesso alle OMT basato sugli impegni già presi dal Paese con gli organi comunitari, senza la connessione con uno speciale finanziamento di emergenza da parte dello stesso MES. Ciò eviterebbe la sensazione di uno “stigma” per i Paesi beneficiari delle OMT e sarebbe in accordo almeno con lo spirito di quanto deciso – anche in seguito a un difficile lavoro diplomatico del governo italiano – dall’ Euro area summit statement del 29 giugno 2012, quando l’idea del whatever it takes e delle OMT stava ancora maturando. Già allora si decideva di “usare strumenti flessibili ed efficienti per stabilizzare i mercati dei titoli di quei Paesi che rispettino le Raccomandazioni della Commissione […], il Patto di Stabilità e Crescita e la Procedura per gli squilibri macroeconomici”.

Va detto però che la normalizzazione degli spread non sarà mai adeguata fino a quando non verrà completata l’Unione bancaria e dei mercati dei capitali europei, che è la vera arma contro la frammentazione. Purtroppo la sua finalizzazione incontra ancora ostacoli persino maggiori di quelli dello “scudo”, posti dai Paesi all’uniformità delle normative bancarie e finanziarie che è indispensabile perché la natura e i rischi di un euro non cambino quando esso passa da un Paese all’altro. Occorrerebbe, in particolare, avviare urgentemente l’assicurazione europea dei depositi bancari e centralizzare maggiormente le decisioni di gestione delle crisi bancarie.

 

Nota: L’analisi e le proposte di questo articolo riflettono anche il contenuto del 48° Statement dell’European Shadow Financial Regulatory Committee, datato a Marstrand, Svezia, 13 giugno 2022, dal titolo “Increasing Fragilities in the Eurozone:Time for Decisive Action”.

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Global Watch: Speciale Geoeconomia n.108
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AUTORI

Franco Bruni
Vice-Presidente ISPI

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