Quarant'anni dopo Tito, la transizione dell'ex-Jugoslavia
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L'anniversario

Quarant'anni dopo Tito, la difficile transizione dell'ex-Jugoslavia

Giorgio Fruscione
04 maggio 2020

Il 4 maggio del 1980, moriva a 88 anni Josip Broz “Tito”, il presidente a vita della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. La morte del “Maresciallo” – titolo che gli venne conferito nel 1943, in piena Seconda guerra mondiale, quando nacque il primo governo jugoslavo dopo l'esperienza monarchica – lasciò il suo paese nell'incertezza politica, sociale e anche geopolitica. Solo dieci anni più tardi, con la frammentazione della Lega dei Comunisti Jugoslavi (SKJ), iniziò il collasso politico della federazione multi-confessionale che avrebbe presto portato al decennio di guerre nella penisola balcanica.

A quarant'anni dalla morte di Tito, a trenta dalla fine del partito unico e a venti dal decennio di conflitti, i paesi dell'ex Jugoslavia si trovano ancora in un limbo politico e geopolitico, a più riprese definito “transizione”.

 

La difficile eredità

Una delle principali responsabilità politiche attribuite al Maresciallo fu quella di non aver saputo impostare delle solide basi politiche per la sua successione. Fino al 1980, i capisaldi che avevano guidato le sei repubbliche jugoslave furono l'esercito, che raggruppava in sé tutti i popoli costituenti della federazione e che godeva del prestigio della vittoria contro il nazi-fascismo, la Lega dei comunisti, espressione di quel socialismo autoctono dell'autogestione, e infine lo stesso Tito, guida e arbitro dei popoli costituenti che con la costituzione del 1974 - che aumentò la decentralizzazione dei poteri in favore delle repubbliche - ricevette la nomina di presidente a vita. Il meccanismo che guidò la Jugoslavia per i dieci anni successivi fu una presidenza collettiva, con la carica di capo di stato tenuta a rotazione dai rappresentanti delle repubbliche federate, in rispetto al motto jugoslavo di “Unione e fratellanza”. Un principio che fu rispettato a fatica nel corso degli anni Ottanta, quando si registrarono i primi segnali di recessione economica e quando su più fronti riemersero prepotentemente le questioni nazionali a lungo sedate dai suddetti elementi unificatori. In particolare, sembrò evidente che “il modello jugoslavo”, che inizialmente con l'autogestione garantì una notevole crescita sociale ed economica, non poteva più garantire lo sviluppo del paese e che questi non sarebbe sopravvissuto a Tito. La crisi economica e sociale non fece che dare nuova linfa a quelle ritrovate istanze nazionaliste e indipendentiste tra le repubbliche, che videro nel sistema mono-partitico socialista e nella federazione un ostacolo contro la propria affermazione politica e nazionale.

Si tratta di un'eredità che dura ancora oggi, dal momento che dalle prime elezioni libere del 1990 i partiti nazionalisti non hanno fatto che crescere e in alcuni casi si trovano tuttora alla guida degli stati che negli anni Novanta perseguirono con la forza la compattezza nazionale.

 

L'eterna questione nazionale

Lo jugoslavismo di Tito si basava sulla sostanziale equivalenza di serbi, croati, sloveni, macedoni, musulmani e montenegrini. A inizio anni Novanta, che videro nel nazionalismo la principale causa e conseguenza della guerra, questo principio venne rovesciato. Le prime avvisaglie di questa inversione arrivarono appena un anno dopo la morte del Maresciallo: nel 1981, le rivolte nel Kosovo – che rivendicava una maggiore autonomia e la trasformazione da provincia serba a repubblica jugoslava – dimostrarono la precarietà dell'equilibrio etnico. Cara al popolo serbo, il cui mito nazionale trae le sue origini dalla battaglia contro gli ottomani del 1389, ma in larga maggioranza abitata da albanesi, la regione del Kosovo diventò presto sia il catalizzatore delle ambizioni nazionaliste locali di entrambe le parti, che il punto di partenza del collasso della federazione. Nel 1989, il seicentesimo anniversario della battaglia, con la visita e il celebre discorso di Slobodan Milosevic a Gazimestan si ruppe, forse definitivamente, il sistema dell'Unione e fratellanza. Da allora, le rivendicazioni dei singoli gruppi nazionali non fecero che fiorire, in contrapposizione alle spinte centripete di Milosevic, che nello stesso anno eliminò l'autonomia della provincia, dando uno dei primi colpi di grazia al sistema di rappresentanza jugoslavo.

I risultati sono evidenti tutt'oggi e il Kosovo, che dieci anni più tardi sarebbe stato teatro dell'ultima guerra jugoslava, non ha ancora consolidato la propria indipendenza a livello internazionale, riconosciuta da circa metà degli stati dell'ONU. La questione del Kosovo è più aperta che mai e il dialogo tra Belgrado e Pristina, mediato dal 2013 dall'UE, avanza a un passo avanti e due indietro.

Ma le questioni nazionali restano aperte in molti stati post-jugoslavi. In primis la Bosnia-Erzegovina, che con la costituzione di Dayton del 1995 ha trovato sì la pace ma si è arenata in una etnocrazia e una suddivisione statale (tra Federazione di Bosnia-Erzegovina e Republika Srpska) che ne limitano ogni sviluppo a livello centrale e dove il nazionalismo di partito domina ancora la politica locale.

 

Tra est e ovest

La Jugoslavia di Tito fu a lungo un ponte tra est e ovest. Sia geograficamente, tra i paesi del blocco sovietico e quelli del mondo occidentale; sia politicamente. Dopo aver rotto con Stalin nel 1948, insieme al presidente egiziano el Nasser, quello indonesiano Sukarno e il primo ministro indiano Nehru, nel 1961 il Maresciallo diede vita al Movimento dei Non Allineati, ospitandone a Belgrado il primo vertice. I non allineati furono un'alternativa ai due blocchi contrapposti nella Guerra fredda e una terza via per molti paesi, specie quelli africani di recente indipendenza dopo la dominazione coloniale. Fu forse proprio la politica estera a consacrare il carisma di Tito (il suo funerale ospitò il record di delegazioni nazionali da tutto il mondo): supportato dall'Occidente, fintanto che non ruotava nell'orbita di Mosca, e punto di riferimento per quei paesi socialisti, chiusi ermeticamente verso l'esterno, i cui cittadini invidiavano le prerogative jugoslave, in primis la libertà di movimento.

Questo ponte oggi assomiglia invece più ad un'altalena, che costantemente oscilla da est a ovest. La Serbia più di tutti incarna quest'immagine: mentre l'UE rappresenta oltre la metà degli scambi economici e commerciali, nonché l'obiettivo numero uno della politica estera dichiarata di Belgrado; l'alleanza politica principale è con la Russia, un bastione nell'arena internazionale contro il processo di riconoscimento del Kosovo. Un piede che sempre più a fatica calza due scarpe e che continua a prolungare il processo di transizione nell'area post-jugoslava.

Quarant'anni fa morì quindi quello che si potrebbe definire uno dei migliori interpreti dello jugoslavismo, ovvero quel movimento politico e culturale nato cent'anni prima della stessa Jugoslavia di Tito, e che oggi si limita solo a ricordi nostalgici in un insieme di paesi il cui destino resta ancora incerto e instabile.

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Balcani
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AUTORI

Giorgio Fruscione
ISPI Research Fellow

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