L’anno 2022 comincia con più incertezze di quante sembrava riservare qualche mese fa. La pandemia sta ancora mordendo la società, l’economia e la politica. La normalizzazione sanitaria ritarda. Per l’UE le sfide economiche si fanno ancor più difficili.
Negli ultimi mesi del 2021 si è affacciata, quasi inattesa, quella dell’inflazione. In parte l’accelerazione dei prezzi risale proprio alla fase di rallentamento della pandemia, con una domanda che ha ripreso più rapida dell’offerta per gli inciampi che quest’ultima incontra nel riassetto delle catene produttive internazionali seguiti alle emergenze sanitarie. Se però la pandemia si prolungasse, anche la domanda aggregata rallenterebbe nuovamente, frenando i prezzi. Si aggraverebbe invece la situazione finanziaria, i debiti pubblici e quelli privati alimentati nuovamente dagli aiuti e dai sussidi richiesti dal proseguire della crisi sanitaria. La Banca Centrale Europea (BCE) potrebbe decidere di posticipare ulteriormente la riduzione degli acquisti di titoli di Stato e l’aumento dei tassi di interesse. Per l’UE potrebbe venir rimandata perfino la sfida della riattivazione di un Patto di Stabilità e Crescita e la sua necessaria riforma. L’attuazione dei Piani di Ripresa e Resilienza, varati con i fondi del Next Generation EU (NGEU), rischierebbe forti rallentamenti. Urgerebbero di nuovo spese e programmi internazionali concentrati sulla sanità. Sarebbe come tornare indietro nel film degli ultimi due anni.
Ma questo è uno scenario pessimista e probabilmente evitabile se, come viene autorevolmente ipotizzato, alla nuova diffusione del virus corrisponde un suo indebolimento e il suo divenire malattia endemica simile alle più consuete influenze. Conviene dunque guardare all’anno nuovo in una prospettiva meno sfavorevole nella quale però le sfide prima ricordate si farebbero sempre più pressanti e urgenti.
Inflazione e politiche monetarie
L’inflazione, innanzitutto. L’idea, a lungo sostenuta dalla BCE e da molti altri autorevoli previsori internazionali, che essa sia temporanea e destinata a rientrare quasi spontaneamente nella seconda metà dell’anno, sembra appassire. È più probabile che l’accelerazione dei prezzi si prolunghi fin oltre la fine dell’anno e richieda politiche adatte ad arrestarla. Se una parte degli attriti alla pronta ripresa delle catene produttive è senz’altro destinata a esaurirsi, consentendo una ripresa non inflazionistica della domanda aggregata, i cambiamenti strutturali in corso in molti settori continueranno a inceppare le produzioni e a renderle più costose. In parte saranno cambiamenti desiderati e stimolati proprio dalle politiche industriali e finanziarie ispirate dalla crisi nonché da mutamenti nella composizione della domanda di consumi e investimenti.
La transizione digitale e quella energetica, le politiche per frenare il cambiamento climatico, le trasformazioni nelle preferenze e negli atteggiamenti di famiglie e imprese sono fenomeni destinati a durare anni. Essi richiedono complesse riallocazioni di risorse e perpetuano gli attriti fra l’evoluzione della domanda e l’adeguamento dell’offerta. Potrebbe persistere l’impressionante aumento in corso dei costi di alcune fonti energetiche: anche se si tratta di un percorso di aggiustamento del livello (e non del tasso di crescita) dei loro prezzi, il suo spalmarsi nel tempo potrebbe risultare in un prolungato impatto inflattivo diffuso a cascata su tutti i beni tramite i costi dell’energia necessaria a produrli. Sul mercato del lavoro tensioni inflazionistiche possono derivare dal proseguire dell’invecchiamento delle popolazioni, da rigidità nel riposizionare lavoratori e produzioni, dalla scarsità di competenze adeguate a nuovi processi produttivi, da maggiori resistenze delle persone a impegnarsi in lavori precari e poco remunerati. Impatto inflattivo potrebbero anche avere rallentamenti e inversioni nel processo di globalizzazione che per anni ha calmierato i prezzi accentuando la concorrenza. L’effetto si avrebbe anche da affrettati rimpatri delle produzioni da un Paese all’altro all’interno dell’UE.
Di fronte alla minaccia dell’inflazione si odono suggerimenti di considerare forme di controllo amministrativo dei prezzi. Provengono anche da chi a lungo ha negato il ruolo della politica monetaria nel contenerne gli aumenti. Significherebbe ferire il ruolo dei mercati e pretendere di sostituirli nel governare gli equilibri fra domanda e offerta. D’altra parte è vero che l’inflazione risente dell’ingigantirsi di alcuni mark-up monopolistici e che può venir contenuta aumentando la concorrenza in molti settori con riforme e interventi delle autorità deputate a difenderla. Il buon funzionamento del “Mercato Unico” è l’originario fondamento dell’Unione e un nuovo accento sulla sua cruciale importanza sarebbe opportuno, proprio in questa fase che vede una difficile trasformazione di quel mercato. Da questo punto di vista l’uscita dalla pandemia richiede anche il ripristino della disciplina degli aiuti di Stato, sospesa nel 2020 insieme al Patto di Stabilità e Crescita. Un ripristino che appare molto sfidante ma che è urgente affrontare, considerando eventuali riforme della disciplina, adattandola a nuove esigenze delle politiche industriali ma ribadendo con forza l’essenzialità della sua logica di fondo. Il rilancio della concorrenza nel Mercato Unico è un aiuto cruciale per calmierare i prezzi mentre, nel contempo, si agevolano le riallocazioni di risorse e le trasformazioni produttive richieste dai tempi nuovi.
Alla BCE rimane comunque la sfida di evitare il debordo dell’inflazione soprattutto influenzando credibilmente le aspettative di crescita dei prezzi sulle quali si basa chi contribuisce a fissarli come venditore e ad accettarli come acquirente. Per far questo la politica monetaria europea non potrà evitare di avviare credibilmente il rientro dai provvedimenti di stimolo monetario che sono in vigore da molti anni. Anche se con una ben annunciata gradualità dovranno, come già accennato negli annunci della BCE, rallentare e poi cessare gli acquisti di titoli di Stato disposti con i provvedimenti anti-pandemia e poi anche quelli dei programmi in vigore negli ultimi sette anni. I tassi di interesse a breve controllati dalla BCE dovranno gradualmente abbandonare i livelli nulli e negativi assunti fin dal 2016: già nel 2022 occorrerebbe disegnare un percorso pluriennale per la loro normalizzazione.
Politiche di bilancio e NGEU
Le sfide macro-finanziarie del 2022 per l’UE riguardano anche le politiche di bilancio. Le principali sono tre. Due sono fra loro molto complementari: la riforma del Patto di Stabilità e Crescita del quale è prevista la riattivazione nel 2023 e la gestione dell’enorme quantità di titoli di Stato accumulatisi nell’attivo del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC). La terza consiste nell’avanzamento virtuoso dei programmi di ripresa e resilienza presentati e avviati con i fondi del Next Generation EU (NGEU).
Sulla riforma del Patto si teme una frattura nel Consiglio prodotta dai cosiddetti Paesi “frugali” che vorrebbero conservare le regole del passato e imporre subitanei e severi aggiustamenti delle finanze pubbliche. La Francia, che ha la presidenza dell’Unione nel primo semestre, è favorevole, come l’Italia, a una riforma sostanziale parallela a passi avanti nel rendere più ampio e incisivo il bilancio comune dell’Unione estendendo nel tempo l’approccio di NGEU. La Germania, col suo nuovo governo, è vista come decisiva nel trovare un equilibrio. La trattativa sarà lunga e sfidante ma alcune linee di possibile riforma sembrano emergere. Servono regole semplificate e implementabili con più credibilità ed efficacia, mirate alla convergenza dei debiti pubblici rapportati al Pil verso un obiettivo comune, possibilmente un poco più elevato del 60% di Maastricht, con maggior gradualità per i Paesi che ne sono più lontani. Per raggiungere l’obiettivo, lo sforzo di controllo potrebbe concentrarsi sul tasso di crescita della spesa pubblica al netto di aumenti discrezionali delle imposte. Le spese potrebbero inoltre essere calcolate al netto di parte di alcuni investimenti pubblici di rilevanza comunitaria, tenendo conto, in particolare, delle necessità delle transizioni energetiche e digitali.
Anche i titoli di Stato accumulati dal Sebc potrebbero ricevere un trattamento particolare nella contabilità del Patto riformato. Il problema che essi pongono è una sfida a più lungo termine, ma è sperabile che già nel 2022 qualche passo venga fatto nel disegnare una soluzione. Si tratta di un ammontare enorme che continua a crescere e ha raggiunto circa il 30% del Pil dell’eurozona. L’attenzione della politica monetaria viene inevitabilmente distorta a favore dei settori pubblici debitori, soprattutto alla scadenza dei titoli che per ora la BCE è impegnata a rinnovare. La riflessione da avviare potrebbe riguardare il trasferimento di quei titoli a un fondo esterno alle banche centrali che si finanzi con l’emissione di eurobonds analoghi a quelli previsti da Ngeu. Mentre cesserebbe la monetizzazione dei debiti pubblici potrebbe così svilupparsi la loro parziale condivisione e la generazione di titoli europei che, avendo in contropartita un portafoglio diversificato di titoli nazionali, avrebbero rischio sostanzialmente nullo e amplierebbero il ruolo dell’euro nel sistema finanziario mondiale. Il fondo che accoglie i titoli potrebbe anche coincidere con il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) cui verrebbe affidato anche il ruolo di agente dei debiti pubblici europei con possibilità di interventi di stabilizzazione dei corsi dei titoli nazionali in caso di turbolenze speculative destabilizzanti.
Sottostante e complementare alle sfide per la stabilità monetaria e finanziaria, il 2022 vede l’UE impegnata in passi cruciali per l’avanzamento di NGEU. Questa è una sfida reale, industriale, sia micro che macroeconomica, che richiede di avviare la realizzazione concreta e tempestiva dei programmi di ripresa e resilienza, essenziali per uscire dalla crisi pandemica con sistemi economici più robusti, produttivi e moderni di quelli precedenti la crisi. Su questo fronte l’Italia ha un compito e una responsabilità particolari perché è fra i Paesi che nella pandemia sono entrati più deboli e che da NGEU hanno avuto gli stanziamenti maggiori. Non vi è dubbio che il successo del PNRR italiano avvantaggerebbe tutta l’Unione mentre esitazioni, ritardi ed errori nella sua implementazione ridurrebbero l’entusiasmo per una reazione comunitaria alla pandemia della quale l’UE va giustamente fiera e che può molto rafforzare il suo ruolo nell’economia globale.