Malgrado le sue crisi e il suo continuo travaglio interno, in giro per il mondo l’Unione europea era ancora considerata un esempio positivo di integrazione regionale, almeno fino al Brexit. Quest’ultimo ha dimostrato che l’Ue è in realtà sempre più criticata al suo interno. Per comprenderne i motivi è necessario interrogarsi sugli esiti che l’integrazione economica europea - mettendo da parte volutamente le implicazioni di carattere politico – ha comportato. La teoria è molto chiara al riguardo: la progressiva apertura dei mercati e una crescente integrazione dell’attività produttiva generano benefici generali. Si tratta quindi di un gioco a somma positiva in cui tutti guadagnano, anche se non necessariamente allo stesso modo. Anzi, ci si aspetta che i Paesi che partono da una situazione più svantaggiata - in termini di reddito pro capite – ci guadagnano proporzionalmente di più, avviando così un beneficio processo di catching-up rispetto ai Paesi più ricchi.
Ma quanto previsto dalla teoria economica si è veramente realizzato in Europa? La risposta in effetti è positiva. Basti pensare all’impressionante performance della Spagna dopo la sua adesione all’Ue, o più recentemente alla crescita dei Paesi dell’Europa centro-orientale che si sono aggiunti ai precedenti 15 Paesi membri a partire dal 2004. Più concretamente: negli ultimi dieci anni i Paesi dell’eurozona sono cresciuti in media dello 0,9% all’anno, mentre gli ultimi arrivati hanno raggiunto in media il 2,9%, con la Slovacchia in testa (4,0%), seguita dalla Polonia (3,9%) e dalla Lituania (3,4%). E allora perché se tutti ci guadagnano la Gran Bretagna vota per il Brexit, l’euroscetticismo è in crescita ovunque (Spagna inclusa) e diventa forza di governo in Paesi come l’Ungheria e la Polonia?
Di certo ci sono problemi di percezione e tanti motivi di carattere storico e socio-politico, ma limitiamoci ancora una volta agli effetti economici dell’integrazione europea. Se da un lato è vero che l’Ue ha favorito il catching-up tra i Paesi, ha anche spinto verso una maggiore disparità all’interno dei singoli Paesi. Un risultato peraltro non sorprendente e previsto da un punto di vista teorico anche dalla geografia economica. Se ci si apre di più all’estero, le regioni e le città più competitive – da un punto di vista infrastrutturale e di capitale umano – attraggono quote crescenti di attività produttiva, distanziandosi così sempre di più dalle periferie nazionali. Difficile non trovare in Europa Paesi in cui questo non si sia realizzato; dall’Italia con la sua perenne questione meridionale, fino alla Francia, alla Spagna e alla Polonia.
Dati gli eventi recenti, vale la pena richiamare il caso della Gran Bretagna, dove le disparità tra le grandi città e le periferie continuano ad aumentare e addirittura Londra presenta un reddito pro capite pari a oltre 3 volte quello medio del resto del Paese. Certo le disparità regionali all’interno dei singoli Paesi e le crescenti disuguaglianze dei redditi sono ormai una costante in tutto il mondo (difficile altrimenti spiegare il fenomeno Trump-Sanders negli Usa), ma non c’è dubbio che l’integrazione europea vi abbia contribuito, al punto che l’Ue stessa prevede al riguardo fondi strutturali e di coesione. Si tratta però di poca cosa: il budget Ue è pari solo all’1% del Pil europeo, e questi fondi ne assorbono circa il 33%. Troppo poco per fungere da vera politica redistributiva verso le tante periferie europee. E tutto ciò in un momento in cui l’austerity sta impedendo anche ai governi nazionali di fare di più. Quello delle disparità regionali e delle disuguaglianze di reddito indotte anche dalla crescente apertura dei mercati e dai processi di integrazione è ormai diventato un tema fondamentale per i decisori politici. Se non si fa molto di più al riguardo, il sostegno dei cittadini a questi stessi processi continuerà a diminuire. Nel Brexit c’è stato anche questo.
Questo commentary è stato precedentemente pubblicato sulla rivista Formiche.