Sulla lunghezza record (o quasi) del summit, sugli scontri tra “frugali” e “mediterranei”, sulla bontà o meno del compromesso finale si è già scritto e detto tanto. E, senza dubbio, si continuerà a farlo per molto tempo. In questo commentary cercheremo di guardare oltre il negoziato per concentrarci su cosa l’Italia potrà/dovrà fare nei prossimi anni. Quanti soldi riceverà? Con quali tempistiche? Come li potrà spendere? Con quali vincoli? E imposti da chi?
Prestiti e sovvenzioni: quanto e quando
Procediamo quindi con ordine iniziando dall’ammontare complessivo. Questo dipende dalla allocation key, ovvero i criteri secondo i quali i 750 miliardi di euro del Recovery Fund verranno ripartiti tra i paesi membri. Per la maggior parte di questi soldi si è deciso di tener conto della popolazione, del PIL pro capite e del tasso di disoccupazione medio tra il 2015 e il 2019, ma anche dell’impatto che avrà sui paesi la crisi da coronavirus (la perdita di Più reale cumulata nel periodo 2020-2021). Con questi criteri l’Italia è il beneficiario numero uno del Fondo e potrebbe ricevere fino a 209 miliardi di euro, di cui circa 82 con sovvenzioni a fondo perduto (che quindi non verranno contabilizzate nel nostro gigantesco debito pubblico) e 127 con prestiti (che ovviamente aumentano il nostro debito). È bene al riguardo affrontare subito una questione che torna più volte nel dibattito pubblico di questi giorni: sono poche le sovvenzioni e troppi i prestiti?
Per rispondere nel modo più oggettivo possibile bisogna considerare due aspetti: l’arco temporale e la composizione del nostro debito pubblico. Il rimborso dei prestiti che riceveremo dall’UE seguirà il più possibile la dinamica dei rimborsi dell’UE stessa sui titoli che emetterà per ottenere dai mercati i 750 miliardi di euro del Fondo. In pratica, alle scadenze in cui l’UE dovrà rimborsare le tranches di titoli emessi riceverà anche il rimborso dei prestiti concessi agli stati. L’UE inizierà a emettere titoli nel 2021 e li rimborserà entro il 2058. Parallelamente l’Italia (così come tutti gli altri paesi beneficiari) dovrà rimborsare i prestiti ricevuti tramite il Fondo entro il 2058, anche se i soldi ricevuti in prestito (così come le sovvenzioni) potrà/dovrà spenderli entro il 2026. Il valore attuale di prestiti che vengono restituiti dopo molti anni è ovviamente piuttosto basso, quindi se è vero che le sovvenzioni sono in ogni caso da preferire, è altrettanto vero che anche questi prestiti sono vantaggiosi, non solo per il bassissimo tasso di interesse ma anche perché verranno restituiti in un arco temporale piuttosto lungo.
La critica sui prestiti legata al fatto che questi faranno aumentare il nostro debito pubblico è corretta (perché contabilmente è proprio così), ma deve essere attenuata, appunto, proprio a causa dell’ampio arco temporale e della composizione del nostro debito. In merito a questo secondo aspetto, va ricordato che già dalla scorsa crisi finanziaria la BCE ha acquistato una quota significativa di titoli del nostro debito pubblico e il ritmo/ammontare degli acquisti è ulteriormente aumentato dopo il varo del PEPP, il programma di acquisto varato da Christine Lagarde dopo lo scoppio della crisi da COVID-19. Ciò anche grazie al fatto che la BCE sta derogando alla ‘capital key’, ovvero il criterio che dovrebbe seguire nell’acquisto dei titoli dai paesi membri che dipende dalla quota che ciascun paese possiede del capitale della BCE stessa (il 13,8% per l’Italia). Negli ultimi mesi in realtà la BCE sta acquistando un ammontare di titoli dal nostro paese (circa 30 miliardi al mese) quasi doppio rispetto a quanto dovrebbe/potrebbe fare per rispettare la ‘capital key’ (e con buona pace della Corte costituzionale tedesca). Quindi anche grazie a questi massicci interventi della BCE, circa il 25% del nostro debito pubblico è ormai detenuto dalle istituzioni europee. Anche i 127 miliardi che riceveremo in prestito tramite il Recovery Fund (così come i miliardi che riceveremo tramite lo strumento SURE per il sostegno all’occupazione) andranno ad aumentare la nostra esposizione verso l’UE e - crucialmente - non verso i mercati, che sono molto più sensibili e inclini al ‘nervosismo’ (leggi aumento dello spread). Come a dire che non tutto il nuovo debito è lo stesso: quello verso l’Ue è migliore.
Prestiti e sovvenzioni: per cosa e a che condizioni?
Quando si parla di come spendere i soldi europei e a quali condizioni è quasi inevitabile che la mente torni alla precedente crisi finanziaria con la sua ‘troika’ e con il suo carico di tagli ‘lacrime e sangue’ (che i greci conoscono fin troppo bene). Questa volta però non è così. Il cambio di paradigma non è da poco: l’enfasi del Recovery Fund è davvero posta sulla crescita. Non sui tagli, ma sulla qualità della spesa e sulle riforme.
La maggior parte dei soldi che arriveranno ai paesi dal Recovery Fund lo farà attraverso i prestiti e le sovvenzioni della “Recovery and Resilience Facility, RRF (672,5 miliardi dei 750 del Fondo). Il 70% delle sovvenzioni ricevute dal RRF dovranno essere impegnate entro i prossimi due anni, mentre il restante 30% nel 2023. Le principali destinazioni d’uso dei fondi riguardano gli investimenti in transizione verde e digitalizzazione.
In particolare, per quanto riguarda la transizione verde, l’obiettivo è di avvicinare gradualmente l’Italia a una economia climaticamente neutra. Secondo la Commissione, gli investimenti dovrebbero ricomprendere: la prevenzione delle catastrofi idrogeologiche, la produzione di energia da nuove fonti rinnovabili, l'infrastruttura per l'energia elettrica e l'efficienza energetica. A queste aree di intervento si aggiungono anche la mobilità sostenibile (ad esempio rinnovando il parco dei mezzi di trasporto pubblico locale), i deficit infrastrutturali nell’ambito della gestione delle acque e dei rifiuti (particolarmente acuti nel Sud Italia), e la trasformazione industriale verso produzioni più sostenibili. Riguardo invece alla digitalizzazione dell’economia, punto centrale è quello delle infrastrutture digitali in un contesto di bassi livelli di intensità e conoscenze digitali delle imprese (soprattutto le Pmi e le microimprese). Al riguardo la Commissione ricorda il ritardo italiano nella copertura della fibra, soprattutto nelle zone rurali e periferiche, e l’importanza di investire in capitale umano attraverso il sostegno all’istruzione, alla formazione e alla ricerca nella direzione di un rafforzamento della cooperazione tra scienza, istruzione e industria. Prima del prossimo Consiglio europeo di ottobre la Commissione presenterà delle proposte per accelerare le procedure di implementazione dei progetti di investimento, a partire da quelli infrastrutturali. È molto probabile che queste proposte riguarderanno nel caso italiano anche – se non principalmente – le lentezze/inefficienze della nostra Pubblica amministrazione.
Ma parallelamente agli investimenti, vengono richieste anche riforme. Per capire di cosa si tratta, basta guardare alle ultime ‘country specific recommendations’ inviateci dalla Commissione (20 maggio 2020). Le principali raccomandazioni riguardano la riforma del mercato del lavoro: maggiore occupazione delle donne e dei giovani inattivi, riduzione del peso della tassazione sul lavoro e introduzione di nuove misure di tutela (soprattutto per i lavoratori atipici), istruzione e formazione professionale (con specifico riferimento all’apprendimento/miglioramento delle competenze digitali). Poi ci sono i ‘soliti noti’ delle debolezze strutturali del nostro paese: la lotta alla corruzione; la riduzione dei tempi della giustizia (sia penale che civile); l’efficientamento della Pubblica amministrazione.
Quale iter per l’Italia?
Questi dunque i possibili investimenti e le possibili riforme. Ma con quale iter? Già nei prossimi mesi il governo italiano dovrà presentare il proprio “National Recovery and Resilience Plan” che dettaglierà i piani di investimento e di riforme per gli anni 2021-2023. Questo piano potrà essere rivisto, anche profondamente, nel corso del 2022 in vista dell’ultima allocazione dei fondi del 2023. Il Piano verrà valutato dalla Commissione entro due mesi tenendo conto, soprattutto, della sua aderenza alle ‘country specific recommendations’ (che quindi diventano qualcosa in più di semplici ‘raccomandazioni’). Questa valutazione della Commissione deve essere approvata dal Consiglio che decide a maggioranza qualificata (55% dei paesi che rappresentano il 65% della popolazione). Ciò vuol dire che i paesi frugali, da soli, non potranno bloccare i Piani. Una volta che questi ultimi saranno approvati si potrà procedere all’erogazione dei fondi ai paesi membri. Spetta alla Commissione monitorare che via via gli impegni presi dagli stati membri su investimenti e riforme vengano rispettati.
La Commissione deve in ogni caso chiedere un parere (si badi bene che si tratta di ‘parere’ e non di approvazione) anche a un organo che riunisce i funzionari di più alto grado dei Ministeri delle Finanze dei 27 (Economic and Financial Committee). Ma qui c’è il ‘ma’ chiesto a gran voce dal premier olandese: se anche un solo paese avrà dubbi sul fatto che un beneficiario non stia rispettando i patti (investimenti e riforme iscritti nel Piano approvato) potrà chiedere che la questione sia affrontata dal successivo Consiglio europeo. In questo caso i pagamenti da parte della Commissione vengono bloccati (per un massimo di tre mesi) finché i capi di Stato e di governo non si saranno espressi dopo aver discusso la questione ‘exhaustively’. L’avverbio conta eccome: l’Olanda pretendeva che se ne usasse un altro, ‘definitely’, da intendere ‘in modo definitivo’ e quindi attribuendosi un sostanziale diritto di veto (visto che il Consiglio decide per consenso). Insomma un bizantinismo tipico dei compromessi europei che dà però maggior respiro al nostro paese.
Questo dunque cosa aspettarsi per l’Italia, ma anche – e forse soprattutto – dall’Italia per i prossimi mesi e anni. Lamentarsi del fatto che esista una ‘condizionalità’ per l’uso dei fondi rischia di essere fuorviante. Anzitutto perché, come ha efficacemente ricordato Giampiero Massolo ‘non possiamo aspettarci che il pasto sia gratuito’. Ma anche perché quel che conta è capire se questa condizionalità sia giusta o sbagliata. Peraltro se si sostenesse che il problema è quello dell’esistenza stessa delle condizioni, allora dovrebbe essere preferibile attingere ai 36 miliardi del MES (che pone minori condizioni). Ma, appunto, il vero punto è se le condizioni del Recovery Fund siano opportune o meno. Se, come sembra, queste sono davvero orientate a rilanciare in modo strutturale e sostenibile il nostro paese andranno accolte con favore. D’altra parte il vero rischio che l’Italia corre non è tanto quello di non tornare a crescere, quanto quello di tornare a crescere dello zero virgola. Se così fosse il potenziale del Recovery Fund sarà stato sprecato o perché la condizionalità era sbagliata o perché non l’abbiamo rispettata.