Recessione a cinque incognite | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Digitalizzazione e Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Digitalizzazione e Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
ECONOMIA GLOBALE

Recessione a cinque incognite

Davide Tentori
02 settembre 2022

Si potrebbe dire che per l’economia globale i primi otto mesi di quest’anno siano stati vissuti sull’ottovolante. Se all’inizio del 2022 le previsioni erano moderatamente positive, nel segno di un pieno recupero dopo le pesanti difficoltà vissute nei due anni precedenti a causa dello shock economico generato dalla pandemia, lo scoppio della guerra in Ucraina ha agito come detonatore di una nuova crisi mondiale, le cui cause vanno ricercate soprattutto alle voci “inflazione” ed “energia”. Quali sono dunque le prospettive per l’ultimo quadrimestre dell’anno e i fattori da tenere principalmente sotto controllo, in un contesto ancora profondamente turbato da tensioni geopolitiche che non riguardano solo i rapporti tra Russia e Occidente ma che si estendono fino a Taiwan e alla Cina?

 

A che punto siamo: gli sbalzi d’umore dell’economia globale

Il 2022 si era aperto all’insegna di un moderato ottimismo: la performance nel 2021 era stata molto positiva grazie a un robusto “rimbalzo” nella crescita del Pil dopo la recessione del 2020, conseguenza dei lockdowns imposti dalla pandemia. A gennaio, i timori per la diffusione della nuova variante Omicron e per i primi segnali di risalita dell’inflazione (una circostanza che allora sembrava però fisiologica, alla luce della ripresa sostenuta della domanda) avevano indotto il Fondo Monetario Internazionale (FMI) a rivedere leggermente al ribasso le stime di crescita per il 2022, dal 4,9% al 4,4%: un dato comunque positivo e incoraggiante.

Il 24 febbraio è stato una vera e propria doccia fredda: a ormai sei mesi dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina sappiamo bene quanto un evento dalla portata geografica tutto sommato limitata abbia avuto un impatto di proporzioni enormi sull’economia globale. Le sanzioni comminate alla Russia, l’impennata dei prezzi di gas e petrolio, il blocco dei porti del Mar Nero con il crescente rischio di una crisi delle materie prime (alimentari e non solo) mondiale, uniti a fattori estranei al conflitto come le nuove chiusure imposte dalla Cina per contrastare i nuovi focolai pandemici, hanno contribuito a creare una tempesta perfetta con una progressiva revisione al ribasso delle stime di crescita per quest’anno e per il 2023, fino al punto da ventilare la possibilità – sempre più reale – di una nuova recessione. Che cosa ci dobbiamo aspettare dunque?

 

La frenata è brusca, ma quanto?

Come si diceva, la progressiva manifestazione dei fattori citati in precedenza ha contribuito a rallentare gradualmente la crescita economica, sia a livello globale che in molte regioni del mondo. Secondo l’aggiornamento di luglio del World Economic Outlook del FMI, il Pil mondiale dovrebbe crescere solo del 3,2% quest’anno (dunque 1,2 punti percentuali in meno rispetto alle previsioni di gennaio); l’Eurozona dovrebbe crescere del 2,6% contro il 3,9% previsto a gennaio, mentre agli Stati Uniti è riservato un ribasso ancora più pesante, dal 4% al 2,3%, anche se molti economisti prevedono che gli USA stiano andando incontro a un forte peggioramento che potrebbe portare ad una recessione al più tardi nel 2023. Ma non è solo l’Occidente a temere un brusco rallentamento: la Cina potrebbe crescere quest’anno solo del 3,3%, un dato estremamente negativo che sarebbe in larga parte “auto-inflitto” come conseguenza della rigida “zero Covid policy” portata avanti da Pechino ma che avrebbe un impatto di riflesso anche sul resto del mondo in ragione della stretta interdipendenza che lega la Cina con l’economia globale lungo le grandi supply chains.

Ad eccezione di alcuni pochi vincitori (soprattutto i grandi Paesi produttori di materie prime che non hanno subito conseguenze – dirette o indirette – della guerra in Ucraina), è dunque chiaro che l’economia mondiale sta andando incontro a una situazione particolarmente complessa. Per determinare la direzione e l’entità di questa nuova crisi, ormai alle porte, è necessario porre attenzione alla dinamica che sarà seguita nei prossimi mesi da alcuni fattori chiave. Vediamo quali.

 

Percorso a ostacoli per evitare la recessione

Inflazione. A premere sul pedale del freno c’è innanzitutto il problema dell’inflazione, vero rompicapo dei banchieri centrali che non sono ancora riusciti a trovare una soluzione. La pubblicazione del dato statunitense di luglio ha dato timidi segnali di speranza: l’inflazione si è ridotta dal 9,1% all’8,5%. Ma il dato core in area 6% da qualche mese, le dinamiche vischiose del mercato immobiliare e la robustezza del mercato del lavoro domestico danno l’idea delle persistenti pressioni al rialzo e di conseguenza della complessità di portare l’inflazione su un sentiero discendente verso il target del 2%, nonostante la Federal Reserve (FED) si stia preparando a operare ulteriori rialzi dei tassi di interesse, dopo quanto annunciato recentemente dal governatore Powell al consueto summit dei banchieri centrali a Jackson Hole. I fari rimangono dunque accesi sulle prossime mosse della FED, che prima del suo meeting del 20-21 settembre avrà a disposizione il dato dell’inflazione di agosto in uscita il 13. In Europa, invece, la situazione è resa ancora più drammatica dal maggiore impatto dello shock energetico e dalla vicinanza al teatro di guerra. Secondo la stima preliminare di Eurostat pubblicata il 31 agosto, l’inflazione nell’Eurozona è salita ad agosto al 9,1% (con nuovi record toccati, ad esempio in Germania dove il dato registrato all’8,8% è il più alto degli ultimi quarant’anni) e le pressioni sui costi dei beni energetici sono rimasti elevati (+38,3%). Nel Regno Unito l’inflazione ha toccato il 10,1%, e le banche d’investimento come Citi e Goldman Sachs hanno recentemente aggiornato le stime per il prossimo anno con scenari drammatici a doppia cifra. Banca Centrale Europea (BCE) e Banca d’Inghilterra hanno una sfida apparentemente irrisolvibile con i soli strumenti della politica monetaria. Per quanto riguarda la BCE, il prossimo appuntamento (la riunione del Governing Council in programma l’8 settembre) servirà a chiarire se Francoforte è decisa a proseguire sulla strada dell’inasprimento dei tassi o preferirà adottare una strategia più prudente.

Tassi di cambio. Ricorrere alla leva dei tassi di interesse presenta un elemento di ulteriore complicazione per il collegamento con l’andamento dei tassi di cambio. La stretta monetaria operata con decisione dalla FED da alcuni mesi a questa parte sta infatti contribuendo a rafforzare sensibilmente il dollaro (che dall’inizio dell’anno ha già guadagnato il 14% rispetto a un paniere di altre valute di riferimento), con un duplice effetto negativo per il resto del mondo. Innanzitutto per l’eurozona: l’indebolimento dell’euro, se da un lato rende le esportazioni verso gli USA più competitive (con una possibile spinta, ad esempio, per il Made in Italy che è peraltro già fortissimo oltre oceano), dall’altro non fa che rendere le importazioni di input chiave ancora più costose, danneggiando così economie di trasformazione come quella italiana e tedesca che sono specializzate nelle fasi intermedie e a valle delle catene del valore. In secondo luogo, dai mercati emergenti, contribuendo ad amplificare le difficoltà di bilancio ereditate dalla pandemia in questi Paesi e ad esporli sempre più a una nuova crisi del debito (come già manifestato in alcuni l’aumento dei tassi di interesse sul dollaro potrebbe provocare una fuga di capitali  da Stati come Sri Lanka e Pakistan).

Energia. Se negli Stati Uniti l’inflazione è stata causata soprattutto dalla fiammata della domanda in uscita dalla pandemia (alimentata anche dai massicci programmi di spesa pubblica varati dall’amministrazione Trump prima, e da quella Biden poi), in Europa è provocata soprattutto dai prezzi – sempre più alti – dell’energia. È sicuramente questa la sfida più urgente e complessa a cui sono chiamati l’Unione Europea e i Governi degli Stati membri nei prossimi mesi se vogliono evitare di sprofondare in recessione nel 2023. Per superare un difficile inverno, bisognerà trovare una difficile quadra tra obiettivi diversi: la riduzione dei prezzi innanzitutto, da perseguire con politiche condivise (come, ad esempio, l’imposizione di un price cap per il gas, sul quale un accordo sembra però ancora lontano nonostante le recenti aperture della Germania e della Presidente della Commissione von der Leyen, in vista della riunione straordinaria che si terrà il 9 settembre proprio per discutere questo tema) oppure misure di natura fiscale a livello nazionale (tassazione di extra-profitti, sussidi alle fasce più penalizzate, con il rischio però in questo caso di aumentare di nuovo i deficit). E l’affrancamento sempre più deciso dalle forniture di gas russo ad oggi ancora insufficiente dato che, per il combinato disposto di importazioni energetiche e prezzi elevatissimi, Mosca continua a guadagnare di più rispetto a prima della guerra: un obiettivo da raggiungere trovando altri fornitori e ricorrendo, se necessario, a razionamenti che avranno però l’effetto collaterale di rallentare l’economia. Nel breve periodo altre strade non sono percorribili, anche se ciò ovviamente non dovrebbe essere interpretato come una giustificazione per disinteressarsi degli obiettivi di più ampio respiro legati alla transizione energetica e al cambiamento climatico. 

Commercio internazionale. Un altro elemento a cui guardare con attenzione è la performance del commercio internazionale. Nella prima metà del 2022 si sono riscontrati due elementi. Da un lato, il balzo record del valore complessivo del commercio mondiale di beni e servizi (7,7 trilioni di dollari nel primo trimestre) non è stato supportato in termini reali dalla crescita dei volumi di scambio. Questa divergenza è causata dal rally delle commodities e sia l’UNCTAD che il WTO sono concordi sulla prospettiva di una decisa perdita di slancio da qui in avanti visti il deterioramento della crescita e le frizioni geopolitiche. Già lo scorso aprile gli economisti del WTO avevano tagliato marcatamente la crescita dei volumi degli scambi di beni per il 2022 dal 4,7% al 3% in attesa delle revisioni di ottobre. Le previsioni di nowcasting e gli indicatori leading confermano la debolezza in corso. Dall’altro lato, l’ultimo report del FMI sul settore esterno ha evidenziato l’aumento globale dei saldi delle partite correnti (somma di tutti i surplus e deficit nazionali) dal 3% del Pil mondiale nel 2020 al 3,5% nel 2021 dopo anni di riduzione. E quest’anno è previsto un nuovo allargamento. Come sottolineato dall’istituzione, saldi delle partite correnti più elevati non sono necessariamente negativi di per sé. Ma quando questi squilibri diventano in eccesso, ovvero non sono giustificati dalle differenze nei fondamentali economici dei Paesi, come demografia, livello di reddito e potenziale di crescita, e da policy auspicabili, ciò potrebbe innescare tensioni commerciali e misure protezionistiche, con effetti rilevanti su valute e flussi di capitale. Inoltre, a livello aggregato lo sblocco dei porti sul Mar Nero è sicuramente uno sviluppo positivo che – almeno in queste prime settimane – ha contribuito ad abbassare le tensioni, riducendo i rischi di frammentazione commerciale e soprattutto i timori per una crisi alimentare globale. Tuttavia, non mancano i rischi dietro l’angolo per un possibile ulteriore rallentamento degli scambi (che avevano dimostrato di reggere bene l’urto provocato dalla pandemia). Innanzitutto, nuovi lockdowns in Cina potrebbero produrre nuovi colli di bottiglia lungo le supply chains; inoltre, il rallentamento dell’economia e l’elevata inflazione potrebbero deprimere la domanda in Occidente provocando una riduzione degli scambi.

Tensioni geopolitiche. Infine non vanno dimenticate le tensioni internazionali che, pur rimanendo sullo sfondo, possono contribuire ad aumentare il grado di incertezza. La guerra in Ucraina è ormai da considerare come un “dato di fatto” e non più variabile endogena al sistema internazionale, ma il prolungamento indefinito del conflitto e l’effetto diluito nel tempo delle sanzioni alla Russia potrebbero offrire a Mosca il tempo di riorganizzarsi ricostruendo le proprie catene di fornitura e partnership economiche. Inoltre, anche se i venti di guerra tra Cina e Taiwan sembrano per ora scongiurati, è lecito ipotizzare che la tensione bilaterale resterà elevata, con effetti potenzialmente rischiosi per le implicazioni di natura industriale e commerciale che vedono Taipei al centro della grande partita globale per la leadership sui semiconduttori.

 

Verso un autunno (e un inverno) “caldi”

Se gli effetti negativi della difficile congiuntura economica che si sta materializzando sono stati fino ad ora attutiti grazie all’onda lunga dell’effetto trascinamento del rimbalzo nella crescita del 2021, e anche per la domanda rimasta elevata grazie soprattutto al turismo estivo, è molto probabile che i prossimi mesi presenteranno il conto, soprattutto in Europa. Un ulteriore rallentamento sembra inevitabile, anche se l’intensità – fino ad un’eventuale recessione - dipenderà da come evolveranno i fattori descritti in questa analisi. Il problema principale da risolvere rimane quello energetico: soluzioni rapide e a basso costo (economico e sociale) non saranno facilmente percorribili e per i prossimi mesi sono attese ulteriori previsioni al ribasso. Una recessione negli Stati Uniti rappresenterebbe un’ulteriore complicazione in un sistema ancora fortemente integrato e globalizzato.

In ultima analisi, l’effetto più pesante di questa nuova crisi sarebbe dunque il trasferimento dal lato dell’offerta a quello della domanda, circostanza che non si era verificata durante la pandemia per la durata limitata dello shock e per i massicci interventi pubblici che riuscirono a sostenere imprese e consumatori. Solo una riduzione delle tensioni geopolitiche potrebbe portare a una riduzione di instabilità e incertezza che favorisca una normalizzazione dei prezzi dell’energia e delle materie prime con l’effetto di stabilizzare l’inflazione. In ogni caso, ci aspettano mesi difficili e “caldi”, nonostante la stagione.

Contenuti correlati: 
Global Watch: Speciale Geoeconomia n.115

Ti potrebbero interessare anche:

Trichet, De Mistura e Guriev ai Master ISPI School
Global Watch: Speciale Geoeconomia n.132
Economia: gli emergenti riemergono?
Consumi di gas: quanto conta il clima
Matteo Villa
ISPI
Agenzie a caccia di fondi
Alessandro Gili
ISPI
Africa: nuove sfide per Pechino
Elisa Gambino
University of Manchester

Tags

Geoeconomia macroeconomia inflazione
Versione stampabile

AUTORI

Davide Tentori
ISPI

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157