Recovery Fund: il veto di Polonia e Ungheria mette a rischio l'UE
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Executive Education
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Executive Education
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
L'analisi

Recovery Fund: il veto di Polonia e Ungheria che mette a rischio l'UE

Matteo Tacconi
17 novembre 2020

È un veto che fa storia, quello esercitato ieri da Ungheria e Polonia sulla condizionalità proposta da Commissione Ue, presidenza tedesca dell’Unione e Parlamento europeo: vincolare l’erogazione di fondi strutturali per il periodo 2021-2027 al rispetto dello stato di diritto.

Fa storia perché i governi di Budapest e Varsavia, per quanto insistano da anni su una postura euroscettica, non avevano mai posto il veto al Consiglio europeo, rompendo il metodo dell’unanimità. Lo hanno fatto, per giunta, su un tema vitale. I fondi strutturali sono una sorgente essenziale per le loro economie. Strade, ponti, ferrovie, riqualificazione urbana: migliaia di cantieri avviati nei due Paesi da quando hanno aderito all’Ue – correva l’anno 2004 – sono dovuti proprio ai fondi. E i fondi sono a loro volta calamita per gli investimenti delle aziende occidentali, da cui Ungheria e Polonia dipendono. Non bastasse, al budget 2021-2027 si lega il Recovery Fund: strumento essenziale per la ripresa dell’interno blocco europeo. Budapest e Varsavia, con il loro veto, ne mettono a repentaglio l’attivazione e fanno entrare l’Ue in un territorio inesplorato. Alla rottura del metodo dell’unanimità esiste infatti una sola alternativa, dentro i Trattati: una ritrovata unanimità. L’altra, esterna, è trasformare il Recovery Fund in strumento intergovernativo, ma è una strada lunga, e comunque i fondi strutturali rimarrebbero ostaggio del veto magiaro-polacco. I prossimi giorni e le prossime settimane diranno se sarà possibile ricucire lo strappo.

Il meccanismo sullo stato di diritto prevede che gli esborsi possano essere congelati o ridotti, con decisione del Consiglio a maggioranza qualificata, nel caso in cui l’indipendenza e l’imparzialità della giustizia fossero gravemente lese, facendo mancare la garanzia essenziale per l’accesso ai fondi, la loro distribuzione e l’eventuale controllo su casi di corruzione e abusi di potere. Si dà il caso che sia proprio la giustizia il terreno su cui la Commissione ha più volte richiamato, in questi anni, Budapest e Varsavia, entrambe protagoniste di un processo di cattura della magistratura, trasformata in un’appendice dell’esecutivo. I due Paesi hanno ignorato ogni raccomandazione, e ora alzano il muro contro la condizionalità sullo stato di diritto. Commissione e presidenza tedesca non pensavano che potessero arrivare a tanto, visto che in ballo ci sono i fondi e il Recovery Fund. Hanno sbagliato i calcoli.

L’Ue deve garantire mercato, frontiere aperte e sviluppo, senza sognarsi di dare lezioni di democrazia: questa la visione dell’Ue, minimalista, che hanno i governi ribelli. Posizione di sempre, ribadita ieri. A ciò si legano considerazioni storico-ideologiche. Tanto nell’Ungheria di Viktor Orbán, quanto nella Polonia di Jarosław Kaczyński, si è stratificata l’idea che la transizione dal comunismo al capitalismo sia stata dettata da un’offensiva incontrastata del capitale occidentale e del paradigma liberale, che hanno intaccato la sovranità dei due Paesi. Le loro dirigenze ritengono che sia venuto il momento di riprendere in mano il destino, smascherando l’ipocrisia liberale. Il veto espresso ieri è un fotogramma di questa sequenza.

Da quando è tornato al potere, nel 2010, Viktor Orbán ha costruito un progetto autoritario svuotando, con un’inesorabile tattica del salame, tutti i contropoteri. Prima la giustizia, poi la stampa, a seguire le università. Durante la pandemia, avocando a sé i pieni poteri, il primo ministro ungherese ha inoltre assestato duri colpi a quel poco di opposizione democratica presente sul territorio. A quest’opera di demolizione dei contropoteri si è affiancato un processo che ha portato alla concentrazione di tutto il potere finanziario nelle mani di oligarchi organici a Fidesz, il partito di Orbán, anche attraverso la ridistribuzione dei fondi strutturali Ue. Il primo ministro ha però lasciato le porte del Paese aperte per i grandi investitori dell’Europa occidentale, soprattutto quelli tedeschi, ben contenti di fare affari in Ungheria. La Germania si trova stretta in un paradosso: da un lato ha in Ungheria un ottimo retroterra industriale, dall’altro cerca di frenare la smania di potere dell’élite regnante. Il gioco di Orbán è contrastare il “ricatto” di Berlino con un “contro-ricatto”. Mal che vada, potrà nutrire i suoi oligarchi con i flussi finanziari immessi nel Paese, su chiaro via libera da parte di Orbán, da Russia e Cina. Non è proprio la stessa cosa, ma può ammortizzare.

A ogni modo è una partita insidiosa, anche tenendo conto che la popolazione ungherese non è anti-europea. Tutt’altro. Secondo l’ultimo Eurobarometro, il 53% dei cittadini nutre fiducia nell’Ue: un percentuale più alta di quella riscontrata in Germania (49%), per non dire di quella dell’Italia (28%). Orbán ha un potere smisurato, può fare e disfare a suo piacimento. Eppure, rompere con Bruxelles è un passo davvero lungo, forse troppo. 

La Polonia populista, guidata dal 2015 da Diritto e Giustizia (PiS), il partito di Kaczyński, ha cercato di importare la ricetta ungherese, ma senza ottenere gli stessi risultati. Il PiS ha catturato la giustizia e vinto due elezioni legislative e due presidenziali di fila, ma sempre di misura. Non controlla le grandi città, baluardo dell’opposizione liberale e motore della crescita economica. Non ha sottomesso le accademie. Non flirta con la Russia, considerata nemica storica, non è così empatica verso la Cina e ha perso di recente l’unica sponda internazionale che poteva contare: quella dell’America di Trump. Non ha una sua classe di oligarchi, né il partito, a differenza di Fidesz, ha una forte presenza sul territorio. E poi c’è una società civile vispa, che non esita a ribellarsi. Di recente il movimento delle donne – sostenuto dai giovani – ha dato vita a proteste di massa contro la crociata anti-abortista del governo e della chiesa, una delle fonti del potere di Kaczyński. È possibile che lo storico no agli “eurocrati” serva anche a rinfocolare il consenso, eroso – stando a tutti i recenti sondaggi – dalle dimostrazioni delle scorse settimane, come a regolare gli equilibri nel governo, dove l’ala più pragmatica, quella del primo ministro Mateusz Morawiecki, è sfidata apertamente dai falchi, riuniti intorno al ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro. La partita che Varsavia gioca è più densa di insidie rispetto a quella portata avanti da Budapest, comunque al limite. Per entrambi i regimi c’è più da perdere che da vincere. E questo vale anche per Bruxelles.

Ti potrebbero interessare anche:

La complessa missione di Biden in Europa
Gas: sotto lo stesso tetto
L’UE e l’allargamento ai Balcani: tra promesse e ipocrisie
Giorgio Fruscione
Desk Balcani - ISPI
Strategia della tensione e price cap
Massimo Nicolazzi
ISPI e Università di Torino
Ucraina: Europa, traguardo lontano?
Davide Tentori
ISPI
,
Alberto Rizzi
ISPI
Consiglio Ue: in gioco il futuro dell’Europa

Tags

Europa Ungheria Polonia Victor Orban
Versione stampabile
 
EU GREEN DEAL

AUTORI

Matteo Tacconi
Giornalista

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157