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Commentary

Recovery (non) Fund: ora le riforme

Antonio Villafranca
30 aprile 2021

Il governo Draghi ha rispettato la scadenza di fine aprile e presentato a Bruxelles il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non si trattava di una scadenza perentoria, ma è bene che il governo l’abbia rispettata per ottenere già nei prossimi mesi il 13% dei fondi destinati dall’Ue all’Italia.

Il dibattito politico e sui media in questi giorni si è concentrato principalmente proprio su questo aspetto: quando riceveremo i soldi e come li spenderemo. Si tratta certamente di un punto cruciale per un Paese come l’Italia che in passato non ha certo brillato nell’utilizzo dei fondi europei. Ma non è l’unico. Alla base di una percezione (in parte) distorta del Next Generation EU (NGEU) c’è una certa confusione su cosa sia e su che obiettivi abbia. Fornire risorse ai Paesi membri sotto forma di prestiti e sovvenzioni è solo una sua parte. E in prospettiva forse nemmeno la più importante. Ci sono impegni rigorosi e vincolanti che l’Italia si sta assumendo se vuole davvero ricevere tutti i fondi. Se non comprendiamo appieno la portata e gli obiettivi del NGEU, rischiamo non solo di non spendere bene i fondi europei ma di non riceverli proprio.

 

Un Recovery (non) Fund

In Italia è ormai prassi comune parlare di “Recovery Fund” e anche in ISPI abbiamo spesso usato questa denominazione per semplicità ed esigenze di comunicazione. Eppure questa espressione non è corretta. La maggior parte dei 750 miliardi di euro del NGEU viene dal Recovery and Resilience Facility (672,5 miliardi). Una “facility” appunto e non un ‘fondo’. Non si tratta di un semplice problema di semantica. Un fondo fornisce risorse, mentre una facility supporta la performance (anche, ma non solo, tramite risorse).

Per capirci di più basta leggere le dichiarazioni della Commissione europea, a partire da quelle della Presidente Ursula von der Leyen, sugli obiettivi del NGEU. Si potrebbero sintetizzare così: il NGEU non finanzia lo status quo, ma il futuro. Questo vuol dire che con il NGEU Bruxelles non vuole semplicemente fornire risorse per tornare alla situazione pre-Covid (con una crescita italiana ancorata allo zero virgola), ma spingere i Paesi membri a risolvere quei problemi che ne ostacolavano la crescita prima della pandemia e costruire così un futuro (sempre più verde e digitale) fatto di crescita sostenuta. In termini ancora più concreti: Bruxelles vincolerà l’erogazione delle risorse alla misurazione della performance dei singoli Paesi. Una performance legata certamente alla tempistica e a come verranno spesi i soldi, ma anche alle riforme che ciascun Paese dovrà fare per rilanciare la propria crescita.

 

Questione di riforme vere

Insomma ci stiamo prendendo impegni seri - e strettamente monitorati dall’UE - sulle riforme che realizzeremo nei prossimi anni per crescere non come prima, ma più di prima. Da un punto di vista procedurale, questo si traduce in un monitoraggio semestrale da parte della Commissione da cui dipendono le prossime tranches di pagamenti all’Italia. Se non rispetteremo anche il piano delle riforme, i pagamenti si bloccheranno. E comunque, e in ogni momento, un qualsiasi Paese membro potrà chiedere di bloccare i pagamenti (per un massimo di tre mesi) a un altro Paese se pensa che questo non stia rispettando gli impegni sull’uso dei fondi e sulle riforme. Spetterà poi al successivo Consiglio – quindi ai leader politici - prendere una decisione dopo un’analisi “esaustiva” della situazione. È il compromesso trovato in extremis con il premier olandese Mark Rutte (che avrebbe voluto un meccanismo ancora più stringente) nel Consiglio dello scorso luglio 2020 per chiudere l’accordo sul NGEU.

A ben vedere, è difficile immaginare che si giunga a una situazione del genere, proprio a causa del serrato monitoraggio semestrale che verrà fatto dalla Commissione, che probabilmente alzerà il cartellino rosso verso un Paese membro (potenzialmente) inadempiente prima che si giunga al Consiglio. In un certo senso, se non lo facesse risulterebbe essa stessa inadempiente nella sua attività di monitoraggio.

Insomma abituiamoci in Italia a discutere non solo di come spendere (bene) i soldi, ma anche di come riformare il nostro Paese. A partire da quali misure? Quali siano, in effetti, non era un mistero anche prima che il governo Draghi presentasse il proprio Piano a Bruxelles. Basta guardare le raccomandazioni che la Commissione ci ha inviato negli ultimi anni. Il Piano presentato da Draghi le divide in 3 categorie: “riforme orizzontali” (pubblica amministrazione e giustizia); “riforme abilitanti” (semplificazione e concorrenza); “riforme settoriali” (procedure di approvazione di progetti e miglioramenti legislativi in vari settori). A queste si aggiungono le “riforme di accompagnamento” (fisco più equo e migliore protezione sociale dei lavoratori).

Difficile non ammettere che l’Italia abbia bisogno – ormai da troppo tempo - di queste riforme. Basti pensare ai tempi della giustizia civile: una media di 7,3 anni per l’Italia contro i 2,4 in Germania. L’Italia dovrà riformare e investire in questo settore per ridurne i tempi con tappe intermedie monitorate e valutate dalla Commissione ogni sei mesi fino al 2026. Certo, non sarà facile e lo stesso Mario Draghi ha recentemente espresso le proprie preoccupazioni alla Presidente von der Leyen sui tempi e sulla portata delle riforme in un Paese ancora in crisi. E non c’è dubbio che, su entrambi i punti, è opportuno richiedere una flessibilità legata anche all’andamento della pandemia e della crescita sia in Italia sia all’estero. Ma oltre questa flessibilità, rimane il fatto che se non faremo queste riforme i rubinetti di Bruxelles si chiuderanno.

 

Quanto pagano le riforme

Con il NGEU, le riforme letteralmente pagano: permettono di ricevere i fondi da Bruxelles e rilanciano l’economia (anche oltre il 2026, ovviamente se mantenute). È lo stesso governo italiano a fornire le stime al riguardo. Con investimenti “addizionali” (quindi escludendo quelli già previsti in passato) pari a circa 183 miliardi, l’Italia registrerà una crescita aggiuntiva tra il 2021 e il 2026 compresa tra l’1,8% (scenario basso in cui si verificano “errori nella selezione, progettazione e messa in opera degli investimenti”) e il 3,6% (scenario alto in cui gli investimenti vengono scelti e realizzati al meglio). Dati importanti che non riusciremmo a ottenere senza i fondi di Bruxelles, ma non esaltanti per un Paese come l’Italia che prima del COVID era cronicamente a crescita zero (o quasi). In pratica, malgrado i benefici del Piano, potremmo crescere in media di circa l’1% all’anno. Basta questo per comprendere quanto sia essenziale sfruttare l’occasione del NGEU per fare le riforme.

Sempre secondo le stime del governo, la crescita aumenterà di un ulteriore 3,3% se realizzeremo le riforme, con contributi significativi soprattutto da parte di quelle “orizzontali” (+2,3% con la riforma della pubblica amministrazione e +0,5% con quella della giustizia). Se non attueremo le riforme (o lo faremo solo in parte), non si ridurrà solo l’effetto benefico delle riforme sulla crescita, ma anche l’effetto benefico delle risorse europee per il semplice fatto che senza riforme, le risorse non verranno più erogate. Quindi anche la forchetta 1,8% - 3,6% rischierebbe di diventare un miraggio. Le riforme sono essenziali per usare il NGEU, ma ancora di più per accompagnare l’Italia nel mondo post-Covid. Con un debito pubblico ormai sopra l’impressionante soglia del 160% del Pil, una crescita bassa renderebbe il rientro a percentuali più sostenibili molto lento. Probabilmente troppo lento, perché in un contesto mondiale di debiti pubblici (e non solo) molto alti, l’Italia rischia di essere severamente colpita da una crisi finanziaria, da qualunque parte del mondo questa abbia origine.

Riconoscere e rispettare appieno la portata del NGEU (risorse + riforme) è essenziale. I motivi per farlo sono presto detti: perché altrimenti non potremmo usare tutte le risorse del NGEU; perché altrimenti non potremmo crescere abbastanza; perché altrimenti saremmo sempre più esposti a crisi finanziarie mondiali. E perché altrimenti la fiducia degli altri Paesi europei potrebbe venir meno, insieme alla prospettiva di una maggiore integrazione e solidarietà europea.

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Antonio Villafranca
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