Se mai ci fossero stati dubbi sull’esito del voto referendario in Egitto, questo è stato pressoché eliminato dal risultato finale: 88,83% i “SI” contro 11,17% “NO”. È stata quindi ampiamente approvata la modifica della Costituzione che permetterà al presidente Abdel Fattah al-Sisi di stare in carica fino al 2030.
L’unica incertezza era rappresentata dalla partecipazione popolare, autentico tallone d’Achille di tutti i precedenti turni elettorali che hanno visto una netta e incontrata affermazione del presidente. In questa tornata la percentuale dei votanti è stata del 44%, in linea con il turno delle presidenziali (40,79%) e in crescita rispetto al referendum costituzionale del 2014 (38,59%). Un dato che conferma in ogni caso un certo distacco e disincanto popolare verso le elezioni e l’esercizio del diritto di voto.
Un voto mai stato in discussione, che ha vissuto pochi slanci di confronto e che ha visto avanzare invece una nuova fase di repressione del dissenso, effetto questo delle politiche interne che hanno raggiunto livelli di guardia nei confronti di opposizioni e società civile simili, se non addirittura superiori, alla recente epoca di Hosni Mubarak, secondo quanto denunciato da Ong internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International. Una strategia di fatto in continuità dal 2014 a oggi che ancora una volta produce una forte restrizione di qualsiasi spazio di dissenso.
In questo senso anche la scelta delle opposizioni potrebbe non pagare politicamente. I pochi gruppi non allineati hanno scelto in maniera più o meno compatta di boicottare il voto in quanto ritenuto plagiato da promesse elettorali false e da pratiche opache delle autorità già in uso nelle presidenziali del 2018 (regali in derrate alimentari e in denaro). Una scelta per certi versi rischiosa che pone in essere un pericoloso boomerang capace di depotenziare ulteriormente le stesse capacità delle opposizioni, indebolendole e ritagliando per loro un ruolo di anonimità.
Su cosa si è votato?
Il referendum riguardava una serie di emendamenti alla Costituzione approvata nel gennaio 2014, cinque mesi prima del primo voto del maggio dello stesso anno che avrebbe aperto la stagione di governo di al-Sisi. Sebbene le prime proposte di revisione della carta fondamentale egiziana fossero emerse già nel settembre 2015 sotto forma di semplici auspici da parte di singoli parlamentari, solo dalla seconda metà del 2018 queste hanno assunto un valore politico concreto da attuare in tempi brevi entrando in maniera dirompente nel dibattito ristretto dell’inner circle sisiano. Secondo alcune ricostruzioni di stampa evidenziate da Mada Masr, l’unico quotidiano rimasto indipendente nel paese, l’intero processo referendario è stato gestito da Mahmoud al-Sisi, figlio del presidente e membro di rilievo nel General Service Intelligence (Gis), e dal generale Abbas Kamel, a capo del servizio nazionale di intelligence.
In sostanza, i 27 milioni di egiziani recatisi alle urne (su 61 milioni di aventi diritto) hanno votato per esprimere il proprio parere sui 14 emendamenti costituzionali, approvati in tempi brevi e a larga maggioranza (531 favorevoli e 22 contrari) dal Parlamento monocamerale egiziano, lo scorso 3 febbraio. Tra questi quelli che hanno destato maggior criticità sono quelli relativi ad una modifica sostanziale dell’articolo 140, che prevede l’eliminazione del limite di due mandati consecutivi per la carica presidenziale e l’estensione in maniera retroattiva del singolo incarico che passa da 4 a 6 anni. Una revisione che consente un prolungamento senza alcun tipo di vincolo del mandato presidenziale oltre il 2022, potendo estendere sin da ora l’incarico al 2026, con una possibilità concreta di emendare ulteriormente tale limite temporale almeno fino al 2034. Non a caso, diversi commentatori hanno ipotizzato per al-Sisi una sorta di carica “a vita”.
Tuttavia il vero vulnus di tale proposta è l’introduzione di un nuovo organo dello Stato, il Consiglio superiore per la protezione della Costituzione (Hcpc) – definito giornalisticamente anche come “Direttorio” – che entrerebbe in carica affiancando l’ufficio di presidenza, godendo di ampi poteri atti a “garantire l’identità dello Stato e a salvaguardare la sicurezza nazionale”. In sostanza si assiste ad una reintroduzione del Consiglio supremo delle forze armate (Scaf), l’istituzione egiziana che durante le fasi post-rivoluzionaria tra il 2011 e il 2012 ha assunto il potere nel paese per gestire la transizione. La sostanziale differenza tra Hcpc e Scaf risiede nell’esercizio del potere. Lo Scaf si attiva in situazioni straordinarie o di gravi crisi, con possibilità di esercitare ampi poteri dati dal carattere emergenziale che vive in quel dato momento il paese. L’Hcpc gode invece di medesimi poteri esercitabili in un contesto di legittimità e ordinarietà. Inoltre – e per questo si presenta come un aspetto controverso –, il presidente al-Sisi potrà presiedere tale organismo a vita, indipendentemente dal fatto che resti o meno nel pieno delle sue funzioni dopo il 2026. In sostanza, qualsiasi legislazione di emergenza verrebbe normalizzata e istituzionalizzata in un quadro legale di quotidianità.
Un altro quesito riguardava un ampliamento dei poteri in favore dell’ufficio di presidenza e la riorganizzazione dei sistemi di intelligence nazionali sotto l’egida del Gis. Non meno rilevanti sono i punti relativi alla riduzione del numero dei parlamentari (i quali passerebbero dagli attuali 595 a 350 membri), alla reintroduzione del Senato (introdotto nel 1979 da Sadat e abolito dalla Costituzione del 2014), alla nomina di due vice presidenti, uno dei quali scelto dal presidente stesso e la tutela delle minoranze (cristiani e donne).
L’ufficio di presidenza potrà nominare anche i vertici della magistratura e degli istituti ad essa connessi (Corte di cassazione, Corte costituzionale e ufficio del Procuratore generale). La riforma permetterà altresì un ampliamento della giurisdizione e dei poteri delle corti militari nei confronti dei civili, favorendo di fatto una loro istituzionalizzazione iniziata già dal 2014. Una scelta non casuale volta soprattutto a depotenziare e controllare il ruolo dei magistrati – storicamente uno strumento di potere molto vicino a Mubarak anche dopo la sua uscita dai vertici di Heliopolis e per certi versi una voce critica dell’operato del presidente in carica.
Infine, un altro punto cardine della riforma è la reintroduzione del ministero dell’Informazione, eliminato nel 2011. Il dicastero avrà un ruolo fondamentale di controllore e legislatore. Un istituto importante per il governo che sarà funzionale e strumentale alle norme introdotte in questi mesi sul ferreo controllo di media e internet e che pertanto garantirà una facilità di manovra anche in termini di repressione del dissenso.
Il significato politico del voto
Ancora una volta il voto in questione fornisce alcune indicazioni, certificandone altre in maniera inequivocabile.
Innanzitutto la rivoluzione, lo spirito e l’eredità di piazza Tahrir, così come qualsiasi processo embrionale di transizione democratica sono definitivamente caduti, abbandonati e per lo più cancellati dalla costruzione di una narrativa di regime fondata sull’instabilità e alimentata dalle stesse autorità dal fattore islamista (e Fratellanza musulmana nello specifico), inteso come minaccia assoluta contro il popolo e lo Stato egiziano. Non poteva essere altrimenti anche in considerazione del fatto che lo stesso regime di al-Sisi ha sempre maldigerito gli echi del 2011 e del 2013 e l’aver introdotto norme così forti hanno di fatto posto la parola fine anche a quel briciolo che era rimasto di eredità rivoluzionaria.
L’eliminazione dei due mandati presidenziali era una misura simbolo del 2011 e voleva impedire la possibilità di un ritorno al passato con le presidenze a vita. Anche la reintroduzione della Camera alta, che si chiamerà Senato, rappresenta uno strumento utile a fortificare questa narrativa contro-rivoluzionaria e a dare nuovi schermi di protezione politica al presidente.
In secondo luogo, e direttamente connesso con il precedente punto, il voto in questione risolve in maniera definitiva un latente corto-circuito iniziato già all’indomani delle elezioni del maggio 2014, quando lo stesso al-Sisi predicava calma e tempo per poter proseguire il suo lavoro e portare l’Egitto “verso un futuro radioso e democratico”. Tradotto in soldoni, le parole del presidente indicavano già dal 2014 la via maestra da seguire, una strada fatta di un lasso temporale esteso su più anni e nuovi poteri il quanto più ampi possibili da affidare al regime. Secondo numerosi osservatori, questo è stato semplicemente restaurato tra giugno e luglio 2013, quando venne deposto l’allora presidente Mohammed Mursi sotto la spinta di una piazza più o meno strumentalizzata dai militari attivi nel sottobosco politico-istituzionale egiziano.
In terzo luogo, il voto istituzionalizza in maniera permanente e ineludibile il ruolo dei militari all’interno delle gerarchie di potere in Egitto. In estrema sintesi, la nuova Costituzione così approvata promuove e conferma l’esercito quale unico garante della Costituzione e dello Stato.
Infine, il referendum rappresenta una scelta che conferma da un lato la debolezza del regime, il quale mostra il lato forte e duro per serrare i ranghi e soffocare qualsiasi rimanente forma di opposizione; mentre dall’altro esprime una necessità di fare fronte comune sul piano interno al fine di impedire possibili tempeste regionali che stanno lambendo i confini egiziani (si vedano le situazioni in Libia e Sudan) o nel Nord Africa (l’eclatante caso algerino).
Le prospettive post-voto
Al di là della giustificazione data dal regime e dall’accolito di personalità ad esso vicine, anche del mondo del business, la concessione di poteri così ampi sembra davvero inconciliabile come necessità per favorire sviluppo e progresso nel paese.
Durante questa strana campagna referendaria molti parlamentari hanno giustificato il voto di queste ore come una misura necessaria a dare stabilità al paese e continuità alle riforme economiche e sociali intraprese in questi anni dal governo e dalla presidenza. Ciononostante, è difficile pensare che tale visione possa essere plausibile non fosse altro per le tensioni sociali ancora esistenti dettate da un’economia fragile e mai realmente rivitalizzata da anni di aiuti internazionali di paesi arabi e di iniezioni di denaro in cambio di misure di forte austerità promosse invece dal Fondo Monetario Internazionale. Un paese che è ancora vittima delle sue debolezze e delle proprie idiosincrasie latenti, sempre pronte ad emergere al minimo cenno di difficoltà.
Proprio l’economia rappresenta il maggior indiziato. Le riforme del governo hanno favorito una ripresa dell’economia ma essa non può dirsi completa anche per effetto delle misure di austerità introdotte che hanno alimentato un diffuso malcontento popolare, danneggiando maggiormente i poveri e la classe media. Di fatto un potenziale moltiplicatore di fratture sociali che se non ben assecondate rischiano di incancrenirsi come fattore di instabilità, anche ad uso e consumo della violenza politica e terroristica.
Pertanto la nuova Costituzione rappresenta uno spartiacque simbolico e politico importante per la storia recente egiziana, nella quale sembra definirsi una chiara visione di Egitto simile a quella precedente il 2011.