La situazione in Libia rimane sempre una delle priorità del governo italiano. Matteo Renzi incontrerà a Washington il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, venerdì prossimo, 17 aprile. Al centro degli incontri vi saranno certamente le crisi in Libia e in Ucraina, gli impegni in corso per contrastare lo Stato Islamico e le questioni economiche, compreso il trattato sul libero scambio tra Usa ed Europa. Ma la questione della Libia appare la più impellente. L’Italia è in prima linea e le conseguenze della crisi ricadono in buona parte su di noi: dall’insicurezza degli approvvigionamenti dell’ENI, alla presenza sempre più cospicua di miliziani pro-IS, alla questione dell’immigrazione, che sembra preoccupare molto il governo anche dal punto di vista politico poiché lo espone alle critiche della destra.
Due anni fa, al G8 in Irlanda del Nord, la richiesta statunitense di “dare una mano in Libia”, secondo l’amichevole espressione usata da Obama con l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta, fu accolta come un successo d’immagine per il governo italiano, tuttavia gli Usa, sempre più riluttanti a interventi diretti nell’area, scaricavano una patata bollente sull’Italia. Nessun paese da solo ha la capacità per via diplomatica o militare di stabilizzare il paese in preda all’anarchia. L’Italia d’altro canto non ha capitalizzato quest’investitura. Per troppo tempo non abbiamo avuto iniziativa politica, non siamo stati capaci di far cogliere all’Europa quanto la sicurezza interna dipenda anche e soprattutto dall’instabilità alle porte di casa. Abbiamo poi cercato di recuperare lavorando dietro le quinte, favorendo il processo di negoziazione tra le varie fazioni (e tra i due parlamenti di Tobruk e Tripoli) condotto dall’inviato delle Nazioni Unite, lo spagnolo Bernardino León. Tuttavia i risultati tardano ad arrivare. Le due fazioni politiche sono a loro volta frammentate, non hanno il pieno controllo dei miliziani sul campo. Tobruk e le forze più laiche si sentono legittimate dal riconoscimento di ufficialità della comunità internazionale e sembrano continuamente portare avanti il bluff: da una parte partecipano ai negoziati, dall’altra lanciano proclami di riconquista della capitale, spalleggiati dal supporto politico dell’Egitto. Sembrano piuttosto consapevoli che il fattore tempo giochi dalla loro parte: se le cose non si risolvono diplomaticamente Tobruk resterà l’unica parte legittima. L’altra parte, quella definita troppo frettolosamente “islamista” è piuttosto divisa e pare sempre più una coalizione di facciata, tenuta insieme dall’ostilità verso il generale Haftar. L’ascesa dello Stato Islamico sembra poterne spaccare il fronte. Questo è infatti composto da forze che non sono per nulla radicali, come berberi e misuratini, che sempre meno tollerano di stare nel campo di chi strizza l’occhio ai jihadisti dell’ISIS. I miliziani di Misurata si sono già scontrati con gruppi pro-ISIS a Sirte. Nel frattempo lo Stato Islamico, grazie alla propria propaganda, raccoglie sempre più aderenti tramite le campagne di reclutamento tra le formazioni jihadiste locali, come Ansar al-Sharia.
A livello internazionale, molti attori sembrano prepararsi a “piani B”. Il tempo non è infinito ed è vero che non si può tollerare una trattativa senza limiti tra le parti sul “piano A”, ossia quello di ricreare un nuovo governo di unità nazionale che conduca la guerra all’ISIS. L’Egitto è il più impaziente. Per motivi geografici non può accettare la presenza di radicali islamici (tra i quali include la Fratellanza) ai propri confini, capaci di destabilizzare e alimentare il terrorismo interno (compreso quello del Sinai). L’Egitto ha per ora alimentato il generale Haftar che sembra imporre a colpi di lotta armata la propria agenda al parlamento di Tobruk. Il Cairo ha preso parte alla coalizione militare araba in Yemen inviando navi e mezzi. Alcuni osservatori sostengono che potrebbe chiedere a sauditi ed emiratini che il favore venga ricambiato in Libia. Altri sospettano che quest’azione possa essere condotta in contemporanea con un intervento o blitz francese nel sud della Libia. Il Fezzan infatti costituisce ormai da tempo la base logistica dei gruppi jihadisti che minacciano la stabilità nell’area saheliana cara a Parigi. Alcuni analisti sembrano scettici su questa possibilità, evidenziando tutte le insidie – anche per Egitto e Francia - di una missione “boots on the ground” e non sembrano credere alla possibilità che possano imbarcarsi in un’avventura così complessa.
Il governo italiano sembra attento a far si che i “piani B” dei vari attori coincidano e che vi sia una responsabilità collettiva più ampia possibile. Per questo sarebbe utile un ruolo più rilevante dell’Unione europea.
Come delineato in un'analisi dell’ISPI nell’autunno scorso, se la crisi legata a una minaccia jihadista in Libia fosse internazionalizzata, magari con la creazione di una coalizione simile a quella anti-ISIS operante in Iraq e Siria, o con la sua estensione sulla Libia, l’Italia e l’Europa avrebbero certamente in mano carte più rilevanti per contenere gli attori regionali coinvolti e conseguentemente creare un nuovo discrimine tra le parti in causa - nell’adesione alla lotta all’IS - che consentirebbe di rimodulare il fronte politico libico; un’ipotesi esaminata da Karim Mezran e Mattia Toaldo settimana scorsa sul New York Times. È evidente che un nuovo intervento militare (aereo) – proprio come per Iraq e Siria – non possa essere risolutivo nel sconfiggere le forze radicali sul campo; infatti, allo stesso tempo, sarebbe necessario ricostruire una nuova legittimità del paese che trovi necessariamente una sintesi tra le forze politiche che rispettivamente si sentono legittimate dal risultato elettorale o dall’aver preso parte alla rivoluzione.
La “dottrina Obama” in politica estera, se può essere individuata, prevede ampie deleghe agli alleati coinvolti nel quadro delle crisi regionali, come le recenti vicende dello Yemen – ma anche della Libia 2011 – sembrano dimostrare. Gli Usa sono rimasti piuttosto scottati dall’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens a Bengasi nel settembre 2012. L’allora segretario di Stato americano Hillary Clinton è stata accusata di aver sottovalutato gli allerta dell’intelligence sui rischi che correva. Difficile pensare a un nuovo diretto coinvolgimento di Washington nella gestione della crisi, proprio ora che la Clinton, candidandosi, sarà nuovamente esposta. Obama spera ancora nella ricomposizione politica del panorama libico per via diplomatica ma è sempre più pressato dal governo di Tobruk che continuamente sottolinea le incongruenze americane: gli USA sostengono a parole la legittimità di Tobruk, ma non vogliono appoggiarlo militarmente contro gli Islamisti e neppure sembrano fidarsi del responsabile delle forze armate, quel generale Haftar che hanno ospitato in Virginia per più di vent’anni ma del quale non sembrano proprio fidarsi. L’amministrazione non pare avere ancora una chiara linea. L’incaricato d’affari libico (pro-Tobruk) ha già replicato duramente alla possibilità di un coinvolgimento militare occidentale a guida americana in Libia, reiterando invece la richiesta d’armamenti.
Renzi dovrà persuadere Obama che l’Italia, abbandonate le farsesche dichiarazioni su interventi militari estemporanei, potrà ancora avere un ruolo di coordinamento sulle vicende libiche. Ma bisognerà arrivare con idee attuabili e convincenti.