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Commentary

Renzi, Obama e la politica "dei tre cerchi"

16 aprile 2015

La visita del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a Washington e il suo previsto incontro con Barack Obama offrono – al di là di quella che sarà la lista dei temi in discussione – l’occasione per riflettere sul significato e sulla portata attuale dei rapporti fra Italia e Stati Uniti, rapporti che – anche se con meno enfasi che in passato (anzi, forse proprio per questo) – continuano a rappresentare una costante importante della politica estera nazionale. Oggi come ieri, infatti, la relazione transatlantica costituisce, per Roma, la tradizionale "uscita d’emergenza" rispetto alle rigidità reali o percepite di una politica europea che pure rappresenta uno dei suoi principali ambiti di riferimento, e gli Stati Uniti il "referente lontano" che bilancia, con la sua presenza, quella che è spesso considerata l’eccessiva invasività di altri "referenti vicini". Questa dinamica affonda le sue radici negli anni del secondo dopoguerra (quando non, per taluni aspetti, nei giorni dell’armistizio e della cobelligeranza) e si consolida nei decenni successivi, nonostante le periodiche fasi di allontanamento e di riavvicinamento, risentendo solo in parte della cesura del 1989-91 e del successivo emergere in Italia di un bipolarismo destra/sinistra complesso e talora contraddittorio.

Chiaramente, nel corso degli anni, i rapporti fra le parti sono cambiati sensibilmente, e ciò non sempre in favore dell’Italia. La marginalizzazione del sud Europa sulla scena internazionale ha progressivamente intaccato la "rendita geopolitica" di cui il paese ha goduto, agli occhi di Washington, negli anni della Guerra fredda. Allo stesso modo, per un complesso di fattori interni ed esterni, l’Italia non è riuscita a concretizzare il ruolo (peraltro ambizioso) di "hub mediterraneo" che pure aveva cercato di farsi accreditare fra la fine degli anni Ottanta e la prima parte del decennio successivo. Lo spostamento verso est e verso nord dei confini di Nato e UE ha rafforzato questa dinamica, contribuendo a marginalizzare l’Italia e, in generale, le penisole mediterranee, il cui controllo aveva costituito una priorità statunitense sin dalla metà degli anni Quaranta. I riallineamenti prodotti dal rinnovato attivismo russo in Ucraina costituiscono solo l’ultima – e, per molti aspetti, la più visibile - parte di questo processo, le cui radici possono, tuttavia, essere ricondotte all’emergere di una dicotomia profonda (in termini di interessi e di percezioni di sicurezza) fra la "vecchia Europa", già cuore del processo d'integrazione, e la ‘nuova Europa’ post-sovietica.

Il ruolo di Washington in tale processo non è stato privo di ambiguità. Grandi sponsor, nel corso degli anni Novanta, della riorganizzazione dello spazio europeo, gli Stati Uniti hanno favorito – anche se, spesso, solo in maniera indiretta – la sua frammentazione politica. Parallelamente, il loro disimpegno dagli affari continentali ha favorito la corsa alla rinazionalizzazione delle politiche dei diversi attori regionali, corsa che ha finito per penalizzare in modo consistente la posizione di quelli più marginali. Ciò, d’altra parte, non ha significato la fine del ruolo equilibrante della Casa Bianca. Il difficile processo negoziale che portato all’avvio dell’operazione Unified Protector (marzo 2011) è un esempio emblematico del permanere di questo ruolo. Lo stesso vale per la parte svolta da Washington nel "serrare i ranghi" del fronte anti-russo nelle fasi più complesse della crisi ucraina. In un caso e nell’altro, la presenza – e la mediazione - statunitensi si sono dimostrate fondamentali per garantire al "fronte europeo" una coesione che difficilmente sarebbe stata raggiunta in loro assenza e per garantire anche ai partner "minori" (e, fra questi, l’Italia) una voce in capitolo e, insieme con questa, un ruolo riconosciuto nel definire l’esito politico degli interventi.

È anche in questa luce che occorre leggere la visita di Matteo Renzi a Washington. Al di là della centralità che il rapporto con l’Europa istituzionale riveste per il premier (una centralità ribadita da gesti concreti e simbolici, come la richiesta che l’incarico di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione ed, ex officio, di Vicepresidente della Commissione europea fosse affidato a un italiano), il legame con gli Stati Uniti costituisce, infatti, l’elemento che offre a quest’ultima buona parte della sua credibilità. Il consolidamento della relazione con gli Stati Uniti è, inoltre, centrale per il legittimare l’ipotesi – perno della "narrazione europea" fatta dal presidente del Consiglio – di una politica economica capace di andare oltre quelle che il governo italiano considera le rigidità dell’attuale modello. Ancora una volta, quindi, il rapporto fra Roma e Washington sembra mimare logiche e concetti della "vecchia" politica "dei tre cerchi" (Europa, Atlantico, Mediterraneo), identificando i primi due ambiti come il luogo di una costante – seppure virtuosa – tensione e il terzo come luogo privilegiato di «espressione della … posizione geografica [del paese] e quale contesto in cui ritagliarsi alcuni spazi autonomi d'azione».

Resta in sospeso il giudizio su quale sarà la sponda che la Casa Bianca potrà (o vorrà) offrire a questa strategia. Nel corso degli anni, l’amministrazione ha ribadito più volte l’intenzione di strutturare su basi nuove il rapporto con l’Europa. Le forti difficoltà che stanno sperimentando i negoziati per la stipula del Ttip (che pure, a suo tempo, Obama aveva salutato come una tappa importante nel consolidamento delle relazioni fra le due sponde dell’Atlantico) alimentano anch’esse un diffuso senso d’insoddisfazione per un partner percepito come non più tanto "speciale". D’altra parte, l’Europa – e l’Italia in particolare – conserva comunque una centralità geopolitica per gli Stati Uniti che gli eventi degli ultimi mesi sembrano avere rafforzato, soprattutto con riferimento alle crisi che continuano a punteggiare i confini del Vecchio continente. Una volta ancora, quindi, un misto di timore e interesse sembra spingere Roma e Washington l’una nelle braccia dell’altra. Con la tacita intesa, tuttavia, che il loro rapporto – oggi come in futuro – sarà sempre meno simile alla relazione consolidata degli anni passati e sempre più simile a un negoziato destinato a rinnovarsi volta per volta e a strutturare su basi sempre diverse un legame in continuo divenire.

Gianluca Pastori, è professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.
 
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