La dissoluzione di Séléka, la coalizione dei gruppi armati che mise fine al regime di François Bozizé con la presa di Bangui nel marzo scorso, decisa da Michel Djotodia il 13 settembre scorso, chiude una fase della transizione e ne apre un altra, che si annuncia a tinte fosche. Lo scioglimento dell’Alleanza è un mero atto d’imperio di un uomo che ci ha abituati a proclamazioni unilaterali: come capo della Séléka prima e, subito dopo, come presidente della Repubblica. Di fatto, Djotodia è solo il capo – “politico” e non “militare” – di un movimento armato, l’Ufdr (Union des Forces Démocratiques pour le Rassemblement), ossia una frazione in seno a una coalizione di gruppi combattenti che si poteva stimare in 5.000 persone al momento della sua costituzione, tra agosto e dicembre 2012. Ai gruppi maggiori, se ne aggiunsero poi diversi altri al punto da trasformare Séléka in un’aggregazione pulviscolare da 3 a 5 volte più grande del nucleo iniziale, mano a mano che il cerchio attorno alla capitale si stringeva e si faceva sempre più certa la caduta del presidente in carica, Bozizé. Un evento, quest’ultimo, che non rientrava neppure negli obiettivi né politici né militari dell’alleanza. Una buona mossa deve essere sembrata agli improbabili strateghi di Bangui quella di sciogliere Séléka, un nome divenuto ormai impronunciabile sulle rive dell’Oubangi, per il carico di misfatti che in tutto il paese, compresa la capitale, gli armati che si fregiano del suo marchio hanno commesso sulla popolazione inerme. Esazioni, ruberie, donne violentate, villaggi bruciati, esodi, sono all’origine del clima di terrore e di insicurezza diffusa che ha indotto finora centinaia di migliaia di persone ad abbandonare i loro insediamenti lasciando quelli che restano in situazioni sempre più invivibili.
Lo scioglimento di Séléka è servito a incassare l’apprezzamento degli Stati Uniti, ma di fatto certifica l’impotenza del potere centrale. Peraltro, essa sopraggiunge dopo il fallimento sostanziale del maldestro tentativo di avviare una “normalizzazione” della transizione attraverso una procedura Ddr (Démobilisation, Désarmement, Reinsertion), già tentata in precedenti occasioni e mai portata a compimento.
Il potere centrale in Centrafrica è un mero potere di fatto, oltretutto precario, nelle mani di Djotodia, un uomo di modesta levatura e privo di una pur minima credibilità internazionale. Un autocrate che blinda ogni giorno di più la sua residenza presidenziale, isolandosi dal resto del paese. Non stupisce, in questo quadro, la progressiva emarginazione del governo e del suo primo ministro, Nicolas Tiangaye, considerato come il volto presentabile della Repubblica, cui è ormai impedito per legge persino di compiere missioni internazionali, per “motivi di bilancio”. Una ripicca contro Tiangaye, fortemente lesiva degli interessi del paese, da parte di un presidente autoproclamato cui era stato consigliato di non farsi vedere a New York dove avrebbe voluto prendere la parola all’Assemblea generale dell’Onu, più disponibile, forse, ad accogliere il capo del governo che il capo dello stato. A fronte di ciò, sta la pentola ribollente del “terreno”, controllato da gruppi armati alquanto mobili che obbediscono solo a signori e signorotti della guerra locali. Un terreno, sia chiaro, che almeno dall’Operazione Barracuda (1979) che liquidò per mano militare francese il grottesco Empire di Bokassa, sfugge al controllo dei simulacri istituzionali che via via s’installano a Bangui, ma dove oggi persino un uomo senza mezzi, senza seguito e senza appoggi politici come Bozizé può ipotizzare qualche colpo di coda.
Dal suo canto, la comunità internazionale tenta di ricompattare un’azione sfilacciata, spesso fatta anch’essa di annunci poco concludenti. Il più altisonante e problematico di questi riguarda la costituzione di una forza denominata Misca (Mission internationale de soutien à la Centrafrique), per impulso della Ceemac (Communauté économique des Etats d’Afrique Centrale), d’intesa con l’Ua e sotto l’egida dell’Onu. Questa forza stimata in 3.600 uomini, dovrebbe incorporare la già presente ma del tutto incongrua Fomac (Force multinationale des Etats d’Afrique Centrale). Su di essa, ci sarebbe l’accordo di tutte le istituzioni coinvolte, ma non si riesce a trovare le risorse per finanziarla.
La parola passa così ai veri protagonisti della scena internazionale. Da un lato la Francia. Il presidente Hollande va dicendo da un mese che è tempo ormai di occuparsi della Repubblica Centrafricana. Lo ha ripetuto, da ultimo, a Bamako in occasione della cerimonia di insediamento del presidente Ibrahim Boubacar Keïta; e lo ha ribadito a New York, in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu, tuttora in corso. Al presidente francese fa eco, in un gioco delle parti che abbiamo già visto funzionare egregiamente proprio nell’Azawad, quello che appare sempre più come il vero maître des jeux regionale, vale a dire Idriss Déby Itno. Il Ciad è stato un protagonista assoluto del cambio della guardia a Bangui, ed è plausibile che abbia una strategia in testa. Di certo ha i mezzi militari (e in parte economici) per intervenire. Del resto, il Ciad ha già un contingente armato nella Rca, come la Francia. Ed è proprio Déby che ha pronunciato forse le parole più drammaticamente sensate a proposito del Centrafrica, nella stessa occasione di Hollande a Bamako. Attenzione, dice Déby, qui si sta creando una situazione di violenza, d’instabilità, di confusione, di vuoto di potere che rappresenta la condizione ideale per agglomerare un’internazionale del terrore islamista dove andrebbero a confluire i gruppi e gruppuscoli in rotta dall’Azawad, gli Shabab somali, le schegge di Boko Haram. Non a caso, già da oggi gli scontri armati centrafricani tendono ad assumere tinte religiose, cosa che non era mai successa in un paese di pur endemica violenza. Nel frattempo, la situazione umanitaria peggiora ogni giorno di più.