È il Vietnam il nuovo manufacturing hub dell’elettronica, oltre che dell’abbigliamento e degli altri settori ad alta intensità di lavoro. Con l’ingresso di Hanoi nel WTO nel 2007 il Paese è diventato velocemente un campione nell’attrazione degli investimenti esteri e si è integrato nelle filiere produttive regionali e globali. Nel decennio successivo ha firmato diversi trattati di liberalizzazione del commercio – tra cui quello con l’Unione Europea, entrato in vigore nel 2020 – rinforzando la sua posizione sia nell’attrazione di investimenti che nel commercio internazionale.
Oltre a quello con l’Unione Europea due accordi sono di particolare importanza. Il primo – un accordo fallito per il ritiro di Trump – era il Trans Pacific Partnership (TPP), un progetto ambizioso che avrebbe rivoluzionato le regole del commercio internazionale sul modello statunitense e che avrebbe costituito una minaccia per la posizione della Cina nelle catene di produzione del valore regionali ed internazionali. Con la mancata ratifica da parte americana l’accordo si è trasformato nel Comprehensive and Progressive Trans Pacific Partnership di cui continuano a far parte gli altri Paesi contraenti sulle due sponde del Pacifico tra cui il Vietnam. Per quanto il TPP non sia stato ratificato dagli USA esso ha comportato per il Vietnam un intenso lavoro di riforma interna, tra cui la ratifica della convenzione dell’International Labour Organization (ILO) sul pluralismo sindacale. Il secondo accordo è la Regional and Comprehensive Economic Partnership (RCEP) che include oltre all’ASEAN anche Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Si tratta del più grande accordo commerciale mai sottoscritto, che coinvolge Paesi che rappresentano circa il 30% del Pil e il 30% della popolazione mondiale.
Più dinamico di Pechino?
Di recente il Vietnam si è distinto come una delle poche economie in grado di continuare a crescere durante la pandemia. Si è trattato di un risultato straordinario ottenuto con politiche efficaci e un forte coinvolgimento popolare. Quando ancora l’Organizzazione Mondiale della Sanità dava indicazioni confuse, Hanoi – memore della SARS, anch’essa di origine cinese – aveva già adottato uso delle mascherine e distanziamento, riuscendo a evitare lockdowns generalizzati grazie a una straordinaria capacità di tracciamento. La chiusura verso l’esterno non ha potuto evitare l’impatto della variante Delta, ma la risposta è stata una veloce e capillare campagna di vaccinazione. Mentre a nord la Cina continua a essere chiusa verso l’esterno, il Vietnam ha ormai completamente liberalizzato gli ingressi senza più richiedere quarantene.
La pandemia ha quindi ulteriormente rafforzato una tendenza già in atto in direzione della delocalizzazione dalla Cina verso il Vietnam di produzioni export-led soprattutto nel campo dell’elettronica. Già prima della pandemia questa tendenza era emersa nettamente a causa della guerra commerciale di Trump contro la Cina – nel 2019 circa il 20% delle mancate esportazioni cinesi verso gli USA erano state sostituite da esportazioni dal Vietnam, anche se in alcuni casi si era trattato di un semplice re-branding di prodotti cinesi giunti sul mercato americano come beni Made in Vietnam. Guerre commerciali e pandemia, tuttavia, hanno semplicemente accelerato una tendenza di più lungo periodo che vede una delocalizzazione dalla Cina delle fasi produttive a più alta intensità di lavoro causata dall’aumento dei salari nel gigante asiatico. È in questa chiave che si devono leggere lo spostamento in Vietnam dell’assemblaggio dei telefonini Samsung (oggi il principale investitore nel Paese) e più di recente la scelta di Foxxcon di spostare oltre confine la produzione di Apple Watch e AirPods.
Ruolo chiave nelle supply chains regionali
Mentre la prossimità geografica con la Cina è stata storicamente una continua fonte di difficoltà per il Vietnam (fino a minacciare la sua stessa identità nazionale durante una colonizzazione che copre tutto il primo millennio dopo Cristo), oggi sembra garantire anche importanti vantaggi economici. La vicinanza fra il Guangdong – la provincia cinese in cui più fortemente si concentra la produzione industriale export-oriented – e il nord del Vietnam ha reso agevole l’organizzazione di network produttivi fortemente integrati. Nel Paese del Sud-Est Asiatico vengono assemblati prodotti per le esportazioni che hanno al loro interno componenti cinesi e spesso vengono realizzati con l’uso di macchinari importati dalla Cina.
Questa interazione con la Cina rende il caso del Vietnam particolare anche all’interno del Sud-Est Asiatico. Complessivamente per i Paesi ASEAN la Cina è diventata il principale partner sia per le importazioni che per le esportazioni. La prominenza della Cina è tanto più significativa in quanto per molti Paesi del Sud-Est Asiatico (come Thailandia, Malesia e Indonesia) nel passato il Giappone ha svolto un ruolo chiave nella loro integrazione in network produttivi regionali e gli Stati Uniti sono stati il mercato di sbocco per l’export dei loro prodotti. Oggi, invece, la Cina sia nell’export che nell’import con il Sud-Est Asiatico pesa da sola quanto Giappone, Corea del Sud e Taiwan insieme. Cina e Stati Uniti attraggono una quota quasi identica dell’export della regione, ma la Cina pesa tre volte di più nell’export verso i vicini sud-orientali. Il caso del Vietnam, come si è detto, è in parte diverso. La dipendenza dall’import cinese è ancora più accentuata che negli altri Paesi ASEAN (oltre il 30%), mentre gli Stati Uniti rimangono di gran lunga il mercato di sbocco per i prodotti locali (più del 27%).
È questa asimmetria nel commercio internazionale a fare del Vietnam un tipico manufacturing hub: un Paese fortemente integrato nel mercato globale, che importa moltissimo per poter esportare, ma che rischia di vedersi confinato in produzioni a basso valore aggiunto. È questo un tema molto presente alle autorità nazionali, ma di non facile soluzione. Con una popolazione di quasi 100 milioni di abitanti e significativamente più giovane di quella cinese, è probabile che il Vietnam continuerà anche nel prossimo futuro ad attrarre produzioni labour-intensive. La tendenza attuale nell’attrazione degli investimenti, tuttavia, è talmente sostenuta da portare in un prossimo futuro a un aumento dei salari. A ciò il Paese dovrà saper rispondere con una transizione verso fasi produttive a più alta intensità di tecnologia e di conoscenza come in larga misura sta facendo la Cina nelle regioni costiere. In mancanza di questa capacità di industrial upgrading il Paese potrebbe trovarsi di fronte a un processo di delocalizzazione o a dover importare forza lavoro straniera a basso costo per restare competitivo nelle lavorazioni più labour-intensive (come oggi accade in alcune produzioni della Malesia e della Thailandia).
Relazioni ambivalenti con la Cina
La particolare relazione del Vietnam con la Cina – da un lato la capacità di beneficiare dalla delocalizzazione dal vicino del Nord, dall’altra la forte dipendenza dalle importazioni cinesi – va valutata guardando anche al complesso quadro delle relazioni internazionali. L’ostilità millenaria si è riproposta più volte anche in tempi recenti e la contesa territoriale in quello che i cinesi chiamano il Mare Cinese Meridionale e i vietnamiti Mare Orientale ha anche portato a scontri armati facendo rischiare una pericolosa escalation militare. Questa contesa si inserisce nella più vasta tensione nella regione per le pretese di sovranità da parte di Pechino su un’amplissima zona marittima che ospita giacimenti petroliferi ma che, soprattutto, costituisce la principale rotta commerciale dall’Asia Orientale verso l’Oceano Indiano. Si tratta di una contesa che coinvolge numerosi Paesi in contrapposizione con la Cina e che viene considerata il possibile terreno di un futuro scontro militare diretto fra Stati Uniti e Cina.
La difficoltà di Hanoi e Pechino nel gestire il confine marittimo ha radici anche nella memoria di vicende relativamente recenti come lo scontro, breve ma cruento, del 1979, quando la Cina provò a punire il Vietnam perché questo aveva invaso la Cambogia mettendo fine al regime di Pol Pot – che era un alleato di Pechino. Per quanto il Vietnam rifiuti di essere coinvolto in alleanze ostili alla Cina, è evidente che nella contesa sul Mare Cinese Meridionale c’è una convergenza con gli Stati Uniti. Al tempo stesso, però, Hanoi condivide con Pechino un sistema politico e istituzionale simile, anche se i due sistemi operano spesso in modi differenti. Il timore di regime change porta a volte a riallacciare i legami tra partiti. La carta del dialogo fra partiti gioca un ruolo fondamentale anche quando i rapporti fra i due Paesi diventano particolarmente tesi, ad evitare rotture irrecuperabili.
È questa complessa posizione del Vietnam, al tempo stesso minacciato e beneficiato dalla vicinanza con la Cina, ad assegnare al Paese un’importanza crescente sia economica che geopolitica. Per questo molte imprese straniere hanno scelto di puntare sul Vietnam in una strategia di diversificazione che riduce la dipendenza dalla Cina consentendo, però, di restare connessi a network produttivi regionali nei quali il gigante asiatico continua e continuerà a svolgere una funzione decisiva.