Jiang Zemin, uno degli artefici dall'apertura cinese al mercato
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L'età cinese delle riforme economiche e della stretta politica

Rimpianti per Jiang Zemin?

Marisa Siddivò
30 novembre 2022

Jiang Zemin muore, metaforicamente, il 10 marzo del 2003 quando il governo istituisce la State Asset Supervision and Administration Commission (SASAC). È l’inizio di un percorso che ristabilisce il controllo statale sulle imprese che dai primi anni ’90 sono sottoposte a continue riforme degli assetti proprietari e gestionali e per le quali si è parlato, senza remore anche in Cina, di privatizzazione e di cartolarizzazione da affidare a società finanziarie ad hoc.

 

Il “tribunale” delle imprese e la fine della stagione delle riforme

La SASAC, che ha come scopo la “supervisione” e la “gestione” delle imprese di proprietà dello Stato (l’ordine delle parole non è casuale), rappresenta l’interlocutore istituzionale per i soggetti economici nazionali e stranieri che fino a quel momento hanno avuto difficoltà a individuare, nelle sovrapposizioni gerarchiche del processo decisionale e nel vacuum normativo, l’ente di riferimento per le partnership o per eventuali contenziosi. Sarà anche l’organismo che scremerà le migliori imprese di Stato, quelle sulle quali scommettere per un futuro che già allora si prospetta dissociato dal ruolo di “fabbrica mondiale” di beni a basso valore aggiunto.

Molti operatori stranieri accoglieranno con soddisfazione questa scelta del governo perché rende meno opaca l’interlocuzione istituzionale e anche perché con l’individuazione delle “imprese centrali”, la SASAC sembra ridurre l’interesse dello Stato a poco più di 100 realtà produttive e, si suppone, lasciare maggiore autonomia a tutte le altre. Gli operatori nazionali, invece, vedranno nella SASAC una sorta di tribunale che vaglierà l’effettivo contributo delle imprese di Stato alla crescita economica (il 35% è in perdita) facendo giustizia delle politiche creditizie e fiscali discriminatorie nei confronti del settore non statale e, sul versante opposto, porrà fine alle storture che hanno determinato le ampie riforme di “aziendalizzazione”, “azionarizzazione” e di “privatizzazione by insiders”.

Jiang Zemin, invece, potrebbe aver visto nella SASAC una deviazione dal corso delle riforme che ha inaugurato nel 1994 e che hanno coinvolto produzione, distribuzione, finanza, mercato del lavoro e fisco. Indubbiamente, da quel momento la stagione delle riforme sbiadisce: Hu Jintao, allora presidente della Repubblica Popolare Cinese, e Wen Jiabao, primo ministro del Consiglio di Stato, concretizzeranno alcuni impegni sottoscritti per l’accesso all’Organizzazione Mondiale del Commercio, come la Legge Anti-trust e la Legge sul Fallimento, ma l’ obiettivo strategico non è più la convergenza verso le regole delle economie di mercato bensì il riequilibrio territoriale, reddituale e sociale che, a sua volta, serve per ricompattare un paese che si appresta a diventare un player importante sui mercati internazionali. Il riequilibrio, però, necessita di un maggiore controllo dello Stato sui comportamenti dei plurimi attori economici emersi dalle riforme e per questo indebolirà il progetto avviato da Jiang Zemin.

 

Jiang e il decennio dell’apertura al mercato

Del Segretario Generale del Partito Jiang Zemin è stato studiato soprattutto il contributo teorico (la teoria delle 3 rappresentanze), il rapporto con gli intellettuali, il potenziamento del settore della difesa, la repressione della Falunda. Poco è stato scritto sulle politiche economiche da lui promosse probabilmente perché siamo stati condizionati dall’idea che con le riforme partite nel 1978 si stesse espletando quella distinzione di poteri e competenze tra il Partito e lo Stato, evocata a più riprese da Deng.

Oggi, nell’era di Xi Jinping e Li Keqiang, stentiamo a credere all’ipotesi della separazione dei poteri e forse avremmo dovuto essere più cauti anche allora, ma il dato è che le politiche di riforma, e la crescita economica double digit che ne conseguì, sono state accreditate al Primo Ministro Zhu Rongji, noto con l’appellativo di “boss” per il decisionismo che lo caratterizzò nel portare avanti le riforme market-oriented. Il decennio di Jiang-Zhu è, infatti, da considerarsi l’acme della politica di apertura e di convergenza con i sistemi di mercato e quindi una svolta rispetto alle riforme intra-sistemiche degli anni ’80.

Dal punto di vista delle strategie di sviluppo non si evidenziano invece grandi cambiamenti. Il paese è ancora dentro una logica di “crescita a tutti i costi”, di riduzione accelerata del gap che lo contraddistingue nel confronto con le potenze economiche. Solo alla fine del periodo gestito da Jiang e Zhu capiremo che sono cambiati gli attori della crescita economica: non più i contadini e le imprese industriali sparse nei villaggi (township-village enterprises) e neanche più le piccole e medie imprese del sud-est che hanno incominciato ad offrire le loro capacità manifatturiere ai brand occidentali. Jiang lascerà una Cina dove si intravede il ruolo preponderante che acquisiranno le banche, le grandi corporation controllate dallo Stato, i fondi sovrani e quei centri di ricerca su cui i suoi successori costruiranno il mito dell’” innovazione endogena”.

 

Crescita senza sviluppo?

Ma veniamo ai dati: nel decennio 1993-2003 il reddito pro capite medio annuo passa dai 400 ai 3.200 dollari. Lo share del PIL nazionale su quello mondiale passa dall’1,4% al 10,1%. Nello stesso decennio la Cina scala le classifiche dell’export mondiale e della capacità manifatturiera attestandosi al 4° posto in entrambe. Nel 2002 con un inflow di 52,7 miliardi di dollari scavalca gli Stati Uniti per capacità di attrazione degli investimenti diretti esteri. Secondo i dati della Banca Mondiale, la popolazione cinese che vive sotto la soglia di povertà assoluta passa dal 28,4% del 1993 al 16,6% nel 2001 e più o meno nello stesso periodo lo UNDP certifica un aumento dello score cinese in termini di indice di sviluppo umano che passa da 0,657 a 0,763. Crescita e sviluppo, quindi?

Non proprio: nel decennio di Jiang si evidenziano tre fattori che spingeranno poco dopo ad un ripensamento complessivo della strategia di sviluppo. Il primo è l’aumento delle diseguaglianze di reddito e l’incapacità del governo di smobilitare la spesa economica a favore della spesa sociale. Il secondo è il decremento della produttività del capitale: come noterà un economista cinese, prima del 1997 per generare un 1 dollaro di PIL la Cina necessitava di 2,6 dollari in investimento, oggi ne necessita di 4. Infine, l’impatto ambientale che trascinerà la Cina ai primi posti nelle classifiche mondiali sull’ inquinamento, posizione non certo compatibile con l’ambizione di diventare una potenza globale.

 

Riforme economiche e ortodossia politica

Si tratta però di diseconomie ascrivibili ad un qualunque processo di crescita accelerata e per questo sottaciute rispetto ai meriti che l’intero decennio gestito da Jiang ha avuto per la Cina e per il processo di globalizzazione in atto nel mondo. Jiang cavalca questo processo e in qualche misura lo determina offrendo l’immagine di un paese in continua riforma di sistema, capace di reggere la crisi del 1998 senza svalutare la moneta nazionale e di gestire l’handover di Hong Kong e Macao. È un paese che ha dismesso le remore degli anni ’80 verso il mondo capitalista, ha superato la crisi di rapporti con l’imprenditoria straniera determinata dal massacro di Tian’anmen e ha perseguito con tenacia l’opportunità di entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio alle sue condizioni.

Jiang Zemin si è imposto due compiti in particolare: far conoscere la Cina al mondo e il mondo ai cinesi ma soprattutto ribadire che anche le riforme più incisive sul profilo market-oriented (e quelle varate negli anni ’90 lo sono state) non intaccano il sistema politico che resta impermeabile a qualunque forma di cambiamento o di dissenso. Questa la reale linea di faglia incisa da Jiang, questa la lezione che ha tratto dall’esperienza di dissoluzione dell’URSS, questa, forse, la motivazione di tanta durezza nel reprimere la libertà religiosa: la separazione tra la sfera economica e quella politico-istituzionale. Quest’ultima doveva rimanere del tutto aliena dai pericoli della glasnost, la prima, invece, non poteva restare ai margini dei processi di crescita, delle strategie di sviluppo e delle regole del gioco economico delle potenze capitaliste. Il progetto dell’ingegnere Jiang di costruire una barriera tra le due sfere salterà di lì a poco: la SASAC riflette la preoccupazione di non contenere gli effetti del nascente capitalismo sugli equilibri politico-istituzionali. Pochi rimpiangeranno Jiang Zemin ma non è improbabile che la classe media urbana emersa proprio in ragione delle riforme stia rimpiangendo il mood di quegli anni che, quantomeno a carte scoperte, barattava le richieste di democrazia e trasparenza con la libertà di “familiarizzare” con gli scenari e i linguaggi del mondo capitalista.

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AUTORI

Marisa Siddivò
Università di Napoli L'Orientale

Image credit: Brian Costelloe (CC BY-NC 2.0)

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