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Il mondo che verrà 2022

Ritorno al "Nuclear Deal"?

Cornelius Adebahr
22 Dicembre 2021

Rianimare l’accordo sul nucleare tra USA e Iran non sarà facile. Washington non cede a Teheran, che prosegue col suo programma.

 

La ripresa dei negoziati di Vienna sul programma nucleare iraniano è ricominciata all'inizio di dicembre. Il loro successo, tuttavia, è tutt'altro che scontato, tanto che non si può dare per certa neanche la prosecuzione dei colloqui nel 2022. Le alternative alla diplomazia sono però ben poco incoraggianti.

Ci sono almeno tre questioni che ostacolano un rinnovato compromesso secondo cui il presunto programma nucleare civile iraniano verrebbe severamente limitato in cambio della revoca delle sanzioni internazionali, principalmente statunitensi. La prima criticità è l'apparente riluttanza di Washington a indicare agli altri firmatari dell'accordo nucleare del 2015 che stavolta intende onorare l'accordo. La seconda è il progresso nucleare dell'Iran, in particolare sullo stoccaggio di uranio arricchito e sulla ricerca e sviluppo in fatto di centrifughe, che avvicina troppo il paese alla soglia oltre la quale tale avanzata diventerebbe inaccettabile per i vicini. E, infine, la cooperazione sulla questione nucleare è stata ulteriormente complicata dai profondi cambiamenti geopolitici della regione riconducibili all'inasprimento della rivalità sino-americana, con la Russia che si butta a sua volta nella mischia.

Più di un anno fa, quando era ancora in campagna elettorale e non ancora nello Studio Ovale, Joe Biden aveva annunciato la sua ferma intenzione di tornare all'accordo storico del 2015 abbandonato dal suo predecessore. Di conseguenza, molti osservatori sono stati indotti a credere che avrebbe optato per una rapida ripresa dei colloqui, con l'intento di giungere a una conclusione possibilmente prima dell'elezione presidenziale del giugno 2021 in Iran, la quale avrebbe fatto entrare in gioco un fautore della linea dura.

Eppure, la squadra di diplomatici esperti di Biden non è riuscita a fare un'offerta tempestiva, semplicemente ponendo ufficialmente fine alla campagna di "massima pressione" contro l'Iran. Inoltre, l'amministrazione statunitense è stata anche parca di dettagli sull'accordo "più lungo e più robusto" a cui presumibilmente mira, e ancor più sulla rotta da seguire nel caso in cui i negoziati dovessero fallire. Contemporaneamente, l'Iran chiede una qualche forma di garanzia a che Washington non abbandoni più un accordo internazionale avallato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, almeno sotto l'attuale amministrazione (Teheran non si fa illusioni su un possibile successore repubblicano di Biden).

In secondo luogo, i progressi dell'Iran continuano a preoccupare non solo quei falchi che non credono mai nelle soluzioni negoziate per partito preso, salvo nel caso di una resa senza condizioni, ma anche il "cane da guardia" delle Nazioni Unite sulle questioni relative al nucleare. L'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) ha recentemente pubblicato diversi rapporti feroci. Inoltre, il suo direttore generale, Rafael Grossi, si è recato più volte a Teheran quest'anno per risolvere questioni spinose sui limiti posti alla capacità dell'agenzia di monitorare le attività nucleari iraniane.

Dal febbraio di quest'anno, Teheran ha "seriamente penalizzato" le ispezioni dell'Aiea ai siti legati al nucleare, come le miniere di uranio, gli impianti di conversione o gli assemblaggi di centrifughe. Ad esempio, dopo un presunto atto di sabotaggio in un'officina di centrifughe a Karaj a giugno, l'Iran ha rimosso tutte le telecamere dell'Aiea ancora presenti sul posto e da allora non ha più permesso all'Agenzia di installare nuove apparecchiature di monitoraggio. Ciò priva la comunità internazionale di una conoscenza vitale e diretta della produzione iraniana di centrifughe avanzate; di conseguenza, sarà difficile fare un inventario dell'infrastruttura nucleare del paese in una fase successiva.

Il confronto sul nucleare si è già esteso sull'altra riva del Golfo Persico, fondendosi con la storica rivalità per il predominio sulla regione. Gli Emirati Arabi Uniti stanno attualmente gestendo il primo reattore nucleare del mondo arabo, a cui se ne aggiungeranno altri tre che diventeranno operativi nei prossimi due anni; nel frattempo, l'Arabia Saudita spera di avviare un programma nucleare senza i vincoli di non proliferazione che Abu Dhabi ha accettato. Riad ha anche detto chiaramente che acquisirà "la bomba" nel momento stesso in cui l'avrà (o farà credere al mondo di averla) Teheran.

Questa ricerca dell'arma definitiva sta per diventare ancora più urgente ora che l'attenzione degli Stati Uniti si è spostata palpabilmente verso la Cina, ragion per cui gli Stati Uniti desiderano defilarsi dalla regione. Gli alleati arabi se ne sono resi conto abbastanza pesantemente negli ultimi anni, quando Washington non è accorso in loro aiuto dopo ripetuti attacchi alle loro infrastrutture petrolifere il cui probabile mandante era l'Iran.

Di conseguenza, alcuni Stati del Golfo hanno iniziato a perseguire una specie di strategia a doppio binario che prevede la collaborazione con Israele attraverso gli Accordi di Abramo del 2020 e al contempo un avvicinamento distensivo all'Iran. Mentre Tel Aviv viene vista come una potenziale fonte di sicurezza contro una minaccia iraniana in un contesto di probabile latitanza degli Stati Uniti, il dialogo con Teheran è un segnale di riconoscimento del fatto che la strategia iraniana, che consiste nel dimostrare che i suoi vicini non possono sentirsi al sicuro se l'Iran si sente in pericolo, ha portato i suoi frutti.

Qualsiasi forma di cooperazione risultante da un tale riavvicinamento sarebbe davvero benvenuta. Tuttavia, con gli Stati Uniti che hanno il piede sulla porta, la Cina che si espande nella regione, commercialmente ma anche politicamente, e la Russia che si è affermata come intermediario forte in fatto di sicurezza, ogni scontro tra questi tre rivali globali, magari innescato da una crisi locale, potrebbe avere come teatro l'area del Golfo. Anche il conflitto latente tra Israele e Iran potrebbe sfuggire di mano rapidamente, sia attraverso uno scontro diretto in Siria sia attraverso i cyberattacchi sempre più sofisticati che i due paesi si scagliano l'uno contro l'altro.

In questo contesto, è difficile che le potenze globali si uniscano al tavolo dei negoziati sul nucleare come hanno fatto tra il 2013 e il 2015. Ciò nondimeno, nelle capitali occidentali esiste l'aspettativa che l'Iran abbia preso la decisione di tornare all'accordo per alleviare la pressione delle sanzioni che danneggiano la sua economia. Ironia della sorte, essendo stata sottoposta a ispezioni invadenti nel quadro dell'accordo del 2015, ora è Teheran che chiede una verifica rigorosa degli impegni altrui, in particolare dell'allentamento delle sanzioni.

Dato che un semplice (si fa per dire) ritorno all'accordo originale è sempre più un'ipotesi speculativa, a causa dei progressi nucleari dell'Iran e dell'imprevedibilità della politica statunitense che ostacola la ripresa degli affari, un accordo transitorio del tipo "meno per meno" sarebbe visto come una pietra miliare in vista di un possibile accordo al rialzo in un momento successivo. Invece di revocare le sanzioni, gli Stati Uniti e altri paesi come il Regno Unito potrebbero sbloccare i beni iraniani da loro trattenuti in cambio di uno stop all'arricchimento dell'uranio oltre il 4% e all'installazione di centrifughe avanzate da parte dell'Iran. Per avviare i negoziati, Washington dovrebbe anche garantire che il suo regime di sanzioni non impedisca il commercio umanitario, compresa la consegna di vaccini contro il Covid-19 o quella di forniture mediche.

L'ultima volta i colloqui con l'Iran hanno richiesto dodici anni perché si arrivasse a un accordo. Nel frattempo, lo scontro nucleare si è inasprito. Questa volta, il mondo non può permettersi una tale negligenza.

 

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Cornelius Adebahr
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