I dati del rapporto semestrale relativo al periodo gennaio-giugno 2022 pubblicato dall’ENAC lo scorso agosto hanno mostrano come il volume dei passeggeri aerei nella prima metà del 2022 sia stato di circa quattro volte superiore a quello dello stesso periodo dell’anno precedente. Rispetto al 2021, infatti, i passeggeri effettivamente trasportati sono aumentati del 314% con un volume più che raddoppiato di movimenti (decolli e atterraggi) negli aeroporti italiani. Dai risultati del rapporto, si nota come la ripresa sia stata trainata, oltre che dal mercato nazionale, da un significativo aumento delle partenze e degli arrivi dalle Americhe, dal Medio Oriente e dall’Asia.
Rispetto allo stesso periodo del 2019, ossia l’ultimo anno pre-pandemia, mancano ancora all’appello circa 20 milioni di passeggeri, pari ad una riduzione del 23,5%. Tale dato ha tuttavia subito l’influenza non solo delle restrizioni agli spostamenti da e verso diversi Paesi comunitari e non, ma anche del deflagrare della guerra in Ucraina che ha comportato, e comporta tutt’ora, una serie di complessità relative agli spostamenti aerei.
Dopo la pandemia, la guerra tiene gli aerei a terra
E infatti, oltre alle ovvie limitazioni al sorvolo delle zone coinvolte dal conflitto e alle sanzioni imposte a Mosca (con sostanziale soppressione di tutte le rotte da e per la Russia), la crisi bellica ha aumentato enormemente il prezzo del petrolio, generando un grave problema per i vettori. La crisi dei prezzi dei carburanti più vicina in termini temporali è quella successiva alle depressioni legate ai mutui subprime verificatesi tra il 2007 e 2008, negli Stati Uniti prima e in Europa poi. In quel caso, si è stimato che circa il 60% del prezzo relativo all’aumento del costo del carburante venne riversato sulle tariffe pagate dai viaggiatori al momento dell’acquisto. Nella situazione attuale, all’aumento dei costi del jet fuel va aggiunto un secondo fattore determinante: la faticosa ripresa delle compagnie aeree dalla catastrofe economica causata dai quasi due anni di pandemia, evento che già di per sé avrebbe presumibilmente dato luogo a un aumento generalizzato dei prezzi per i passeggeri.
Se pure il raffronto con i dati dello scorso anno potrebbe risultare poco indicativo data la scarsità di domanda per via della pandemia ancora in atto e in assenza di alcune voci di costo delle compagnie (come nel caso del carburante), un’indagine compiuta dal Codacons sui costi collegati al trasporto aereo di linea e le più recenti pubblicazioni ISTAT hanno riscontrato un diffuso aumento del prezzo medio dei biglietti aerei, con una previsione per il 2023 di sovrapprezzo ricompreso in media tra il 10 e il 20% per volo rispetto al 2019, con picchi fino al 25% per la stagione estiva, periodo in cui tradizionalmente si registra un fisiologico aumento dei prezzi dati i volumi di domanda strutturalmente più elevati.
L’aumento del prezzo per biglietto medio ha coinvolto indistintamente vettori cosiddetti “tradizionali” e compagnie low cost, risultando un elemento discriminante non tanto la tipologia di compagnia aerea o il livello di servizio offerto quanto l’esistenza di competizione o meno su una determinata tratta. Di conseguenza, si registra un aumento maggiore dei prezzi nelle tratte dove la competizione è minima (o dove l’offerta è stata limitata da agenti esterni) mentre il sovrapprezzo sarà più ridotto nelle tratte dove la competizione è presente in maniera incisiva.
Il problema del caro energia
L’aumento dei costi energetici non ha risparmiato neppure gli aeroporti che, dopo quasi due anni di pandemia, hanno subito, come si legge in una recente nota di Assaeroporti, costi dell’energia elettrica e del gas rispettivamente maggiorati del 400 e del 250% rispetto al 2021, con valori in alcuni casi superiori di oltre 10 volte rispetto a quelli di un anno fa. Gli effetti di tali aumenti (quantificati in circa 150 milioni di euro per il 2022) sono stati solo in parte mitigati dai virtuosi interventi di efficientamento energetico messi in atto da molti scali nazionali e rischiano seriamente di riflettersi in una riduzione delle spese di gestione, arginabile esclusivamente con un aumento delle tariffe per i servizi aeroportuali a spese delle compagnie che, inevitabilmente, comporterebbero costi ulteriormente maggiorati per i consumatori finali, ovvero i passeggeri.
Il raddoppio del costo dei carburanti rispetto a febbraio (prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino) resta la principale criticità e causa scatenante dello scenario appena descritto, dal momento che la spesa per il jet fuel rappresenta circa il 40% dei costi di una compagnia aerea. In aggiunta a ciò vi sono però ulteriori fattori che, se pur in misura ridotta, hanno comportato e continueranno a determinare l’aumento diffuso nei prezzi medi per i consumatori nel prossimo futuro.
L’incertezza post-Covid: fare previsioni a medio termine è impossibile
Anzitutto rimane l’incertezza sull’andamento della pandemia da Covid-19 a livello globale. Infatti, se pure a livello comunitario e “occidentale” le restrizioni agli spostamenti sembrano ormai una pagina passata, l’esperienza dell’inverno 2021-2022 e la prima ondata della cosiddetta variante Omicron hanno evidenziato come sia difficile poter fare previsioni a lungo termine. In uno scenario che non può dare certezze granitiche sul futuro, le compagnie aeree restano titubanti a investire in maniera massiva come fatto fino al 2019, con il risultato di una inevitabile riduzione delle partenze e degli arrivi rispetto ai livelli pre-pandemici fino almeno a tutta l’estate del 2023.
Un ulteriore fattore che sta contribuendo negativamente al diffuso aumento dei prezzi, comunque collegato al Covid-19, è quello rappresentato dalla necessità di ridurre il numero di voli a causa della scarsità di personale in vari scali europei. Questo perché in molti Paesi, specie del Nord Europa (al contrario che in Italia), i meccanismi di cuscinetto sociale a tutela dei lavoratori del comparto aereo e aeroportuale si sono esauriti in concomitanza delle prime riaperture agli spostamenti all’inizio dell’estate del 2020. Le successive restrizioni hanno comportato una riduzione drastica del volume di passeggeri e conseguenti licenziamenti di massa di personale di volo e aeroportuale. Quando poi, a partire dal 2021, i volumi di traffico sono rapidamente tornati a livelli pre-pandemici, in molti scali si sono registrati disagi dovuti a mancanza di personale e frequenti scioperi che hanno portato a una pianificazione, per il prossimo futuro, che prevede un numero di voli in partenza e in arrivo di molto inferiori rispetto al 2019.
Non c’è dubbio, quindi, che una riduzione del numero di voli effettuati su una determinata tratta finirà per comportare un aumento del prezzo per la stessa essendo la domanda (tornata a livelli “standard”) di molto superiore all’offerta disponibile.
Il superdollaro penalizza le compagnie europee
Un ultimo fattore impattante meritevole di analisi è, infine, la persistente forza del dollaro statunitense rispetto alla stragrande maggioranza delle valute mondiali e, in particolare dell’euro, che ha registrato, a partire dal 2022, una riduzione del valore di circa il 15% rispetto al dollaro USA. I motivi di una simile fluttuazione a ribasso sono prettamente geopolitici e partono dall’invasione operata dalla Russia in territorio ucraino nel febbraio 2022, concretizzandosi altresì nei timori relativi a ulteriori possibili escalation militari ad altre latitudini, una su tutte il possibile tentativo di annessione di Taiwan da parte della Cina. I motivi per cui, nell’attuale delicatissimo contesto geopolitico, il dollaro statunitense è visto come un “porto monetario sicuro” a dispetto del crollo delle altre maggiori valute mondiali sono molteplici. Anzitutto gli Stati Uniti, seppure impegnati politicamente a sostegno della NATO, non sono minacciati in prima persona dallo scontro russo-ucraino, ed, essendo il primo produttore mondiale di idrocarburi, non hanno subito, al contrario di Unione europea, Cina e Giappone, alcuno shock energetico, avendo al contrario aumentato le proprie esportazioni.
Per comprendere come e quanto la presenza di un dollaro forte incida negativamente sulle compagnie aeree non statunitensi, occorre tenere conto del fatto che il dollaro americano è generalmente la valuta in uso nel settore del trasporto aereo, tanto con riferimento all’acquisto degli aeromobili e ai relativi canoni di leasing, quanto rispetto ai costi di manutenzione oltre che, ovviamente, a quelli del carburante. Le compagnie aeree e gli altri operatori del settore non statunitensi, dunque, si trovano in una condizione piuttosto precaria dal momento che incassano in valute molto più deboli rispetto a quella in cui saranno costretti ad acquistare per mandare avanti la propria attività.
Le compagnie aeree di fronte a un dilemma
Di fronte a un simile scenario, ancora una volta, alle compagnie aeree non resta molta scelta dovendo decidere tra (se non applicare entrambe) una riduzione del traffico puntando ad operare solo voli pieni al 100% per non sprecare carburante o un aumento medio delle tariffe a danno dei consumatori finali. Per fare un esempio piuttosto vicino alla nostra realtà, per i motivi anzidetti Ita Airways si è trovata costretta, tra gennaio e agosto del 2022, a operare circa 65 mila voli, pari ad un meno 14% rispetto agli obiettivi stabiliti nel budget previsionale nel periodo di riferimento.