Economia russa: i tre buchi neri di Putin
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Commentary
Russia: c'è vita oltre il petrolio?
Eleonora Tafuro Ambrosetti
| 02 Dicembre 2019

Il presidente russo Vladimir Putin può vantarsi di aver riportato la Russia a occupare una posizione rilevante nello scacchiere geopolitico mondiale. Tuttavia, l'ex ufficiale del KGB deve far fronte a un grande rischio che mette a repentaglio non solo la proiezione internazionale, ma anche la stabilità politica interna della Russia: la stagnazione economica. Se l’economia russa sembra essersi lasciata alle spalle i momenti più difficili e la recessione del 2015-2016 sembra ormai superata, la crescita rimane, però, ancora debole. Secondo i dati del Ministero russo dello Sviluppo economico, il Pil è cresciuto dell'1,7% su base annua e le previsioni per il 2019 restano inferiori al 2%. I consumi ristagnano come conseguenza della crisi economica che ha anche fatto alzare il tasso di povertà nel Paese (ora al 15%).

Tra i vari problemi che affliggono l’economia russa (tra cui eccessiva centralizzazione e burocratizzazione, mancanza di incentivi economici alla crescita regionale e sanzioni occidentali), uno sembra essere particolarmente grave perché riflette una condizione congenita allo sviluppo economico russo da quasi tre decadi: il budget della Federazione dipende ancora troppo dall’export energetico e tale situazione resterà probabilmente invariata nei prossimi anni.

La Russia si è riconfermata nel 2018 il secondo produttore di gas naturale al mondo e il terzo produttore di petrolio. A marzo del 2019, il ministero delle risorse naturali e dell'ambiente della Russia stimava che il valore complessivo delle attività collegate al petrolio, gas e altre risorse naturali ammontasse al 60% del Pil. Una relazione pericolosa, che rende Mosca vulnerabile alle variazioni del prezzo globale delle materie prime, petrolio in primis. Proprio il crollo dei prezzi avvenuto nel 2015 e 2016 – il greggio arrivò a scendere sotto i 30 dollari a barile nel febbraio del 2016, contro i più di 100 del febbraio 2013 – è sovente indicato , insieme alle sanzioni UE e USA, come il maggior responsabile della recessione in Russia. Gli anni 2018 e 2019 hanno visto un aumento dei prezzi, ma non si è mai tornati ai livelli del 2013 e permane molta volatilità: per esempio, il prezzo del greggio è diminuito di oltre il 30% (da 75 a 51 dollari) tra il 2 ottobre e il 29 novembre 2019. Inoltre, le risorse naturali sono risorse finite e nuovi giacimenti sono difficili da sfruttare senza la tecnologia occidentale, gravata dalle sanzioni (al contrario del bene esportato – gas o petrolio – che è stato, invece, lasciato fuori).

Proprio il predominio dell'industria degli idrocarburi, secondo molti, impedirebbe lo sviluppo di altri settori, più sostenibili, dell'economia russa, che secondo molti autori soffrirebbe del cosiddetto "male olandese": l'industria delle risorse naturali assorbirebbe manodopera qualificata e rafforzerebbe il rublo, rendendo difficile per altri settori dell'economia competere con le importazioni e sui mercati esteri.

C’è anche l’incognita dell’evoluzione della domanda internazionale di energia: finora si prevede che essa continuerà a crescere, ma ulteriori sviluppi tecnologici o politici potrebbero cambiare il quadro radicalmente. Man mano che la transizione energetica in Occidente e in Cina acquisisce maggiore slancio, i prezzi per la produzione e lo stoccaggio di energia solare ed eolica scendono, rendendo le energie rinnovabili  più competitive. Senza contare lo sviluppo dell’industria del fracking negli Stati Uniti e del mercato del gas naturale liquefatto (LNG). Inoltre, la lotta globale al cambiamento climatico sta portando a politiche climatiche più severe in Europa (si pensi ai tentativi di introdurre una carbon tax a livello europeo) e Cina, che potrebbero smorzare la domanda di idrocarburi. Per non parlare dei Green Deal che cominciano ad affermarsi nelle strategie industriali di vari paesi.

Tale diagnosi è certamente nota al governo russo, il quale, tuttavia, non sta facendo abbastanza per superare la dipendenza dalle risorse naturali e diversificare l’economia. Gli obiettivi di sviluppo nazionale enunciati nel 2018 (da realizzare entro il 2024) prevedono, infatti, la modernizzazione economica e il superamento della dipendenza dalle risorse energetiche, ma le chance effettive di successo sembrano limitate nel breve periodo.

In primo luogo perché il settore dell’export resta dominato dall’energia. Dal 2013 al 2018, la quota di combustibili fossili nelle esportazioni russe è diminuita. Tuttavia, questo dato riflette un calo del valore delle esportazioni di petrolio e gas dovuto alla riduzione dei prezzi del petrolio, piuttosto che un miglioramento delle esportazioni non energetiche, che sono in realtà diminuite durante lo stesso periodo. Tra le eccezioni si annoverano le esportazioni di cereali, aumentate in modo sostanziale a partire dal 2000.

Numerosi fattori - tra cui l'incapacità di prodotti non energetici di competere nei mercati internazionali per prezzo o qualità (data la scarsa reputazione di molti manufatti russi) - sollevano seri dubbi circa l’esito dei tentativi di diversificazione delle esportazioni. 

In secondo luogo, la Russia investe ancora troppo poco nel settore della ricerca: gli ultimi dati disponibili (2015) mostrano una spesa di appena un 1,1% del Pil: un po’ più della Turchia, ma la metà di quello che spendono UE e Cina. Inoltre, non tutti i problemi nel settore della ricerca possono essere risolti semplicemente aumentando i fondi. La cattiva gestione di istituti di ricerca statali, un eccessivo controllo burocratico, una mancanza di concorrenza tra i ricercatori e problemi di trasparenza nell’assegnazione di finanziamenti vengono spesso citati tra i problemi principali della debolezza del settore ricerca, con impatti negativi sulla capacità di innovazione, identificata da Putin come primo motore della crescita economica della Russia del futuro.

In terzo luogo, gli investimenti - che secondo gli obiettivi di sviluppo dovrebbero aumentare fino a coprire il 27% del Pil – sono ancora bassi, anche nelle Zone economiche speciali. Varie le cause: in mercati scarsamente competitivi dominati da aziende statali, le aziende non hanno incentivi a investire per rimanere all'avanguardia; sebbene le aziende debbano ora fare i conti con molta meno burocrazia – nel ranking Ease of Doing Business della Banca Mondiale la Russia è passata dalla 120sima posizione nel 2011 alla 28sima nel 2019 – la corruzione e le difficoltà nel reclutare personale qualificato continuano a scoraggiare investitori nazionali e stranieri.

Per ora, sono stati fatti alcuni sforzi per ridurre gli effetti della volatilità dei prezzi del petrolio sulle finanze pubbliche. A partire dal 2018, una nuova norma fiscale presente nel budget 2019-2021 prevede che entrate extra derivanti dalle imposte sulla produzione di petrolio e gas (a prezzi del petrolio superiori a 40 dollari al barile) vengano messe da parte nel Fondo di Ricchezza Nazionale (National Wealth Fund - NWF). Ciò darà al governo più riserve da cui attingere se il prezzo del petrolio scendesse al di sotto della soglia dei 40 dollari. La norma è stata accolta favorevolmente dal Fondo Monetario Internazionale e segna un utile primo passo per ridurre la dipendenza russa dal mercato globale dei combustibili fossili. Ma se il Cremlino continua a investire sulla stabilità rispetto allo sviluppo, l'obiettivo di una reale diversificazione e modernizzazione economica difficilmente sarà raggiunto nel prossimo futuro.

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Tags

Russia Vladimir Putin

AUTORI

Eleonora Tafuro Ambrosetti
ISPI Research Fellow, ISPI Centre on Russia, Caucasus and Central Asia

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