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L'anniversario
Rwanda 1994: la memoria del genocidio venticinque anni dopo
Camillo Casola
07 aprile 2019

Rwanda, 7 aprile 1994. Venticinque anni sono trascorsi dall'inizio del genocidio, e come ogni anno il Paese delle mille colline dedica celebrazioni solenni alla commemorazione dei massacri. Il Rwanda è oggi un Paese diverso, modello di stabilità, di sviluppo sociale e di crescita economica sotto la guida di Paul Kagame, che ha fatto della memoria un vero e proprio strumento di costruzione statale e peacebuilding.

Venticinque anni fa, dal giorno successivo alla morte del Presidente Juvénal Habyarimana, deceduto in seguito all’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava di ritorno da Dar es Salaam[1], il Rwanda fu attraversato da un’ondata di violenze genocidarie. Per cento giorni, fino al 4 luglio dello stesso anno, le milizie paramilitari interahamwe e impuzamugambi, esponenti dell’esercito nazionale, amministratori locali e semplici cittadini di etnia hutu, aizzati dalla feroce propaganda di Radio Milles Collines che invitava a sterminare gli 'scarafaggi', uccisero sistematicamente membri delle comunità tutsi (e hutu ‘moderati’), massacrati a colpi di machete e armi da fuoco.

Furono circa 800.000 le vittime di un genocidio perpetrato sotto gli occhi della comunità internazionale. Le Nazioni Unite, presenti nel Paese dal 1993 al fine di monitorare e garantire l'implementazione degli accordi di pace di Arusha per la risoluzione del conflitto civile tra i ribelli tutsi del Front Patriotique Rwandais (FPR) e il governo espressione della maggioranza hutu, si rivelarono incapaci di prevenire lo scoppio delle violenze. Nonostante i segnali di allarme lanciati dal generale canadese Romeo Dallaire, a capo della missione UNAMIR (UN Assistance Mission for Rwanda), l'assenza di una precisa volontà politica impedì il rafforzamento del mandato delle Nazioni Unite. L'uccisione di un contingente di militari belgi (e del Primo Ministro Agathe Uwilingiyimana) a opera di miliziani hutu costituì un evento traumatico per l'organizzazione internazionale, che decise il ridimensionamento del numero di caschi blu presenti nel Paese, da 2.500 a 270, su pressione di alcuni governi occidentali – e, in particolare, degli Stati Uniti di Clinton, reduci dai fatti di Mogadiscio – rinunciando, di fatto, a proteggere le popolazioni civili rwandesi oggetto dei massacri.

I massacri, su larga scala, furono particolarmente cruenti. Il 22 giugno, Parigi ordinò il dispiegamento dell'Opération Turquoise, sostenuta dalle Nazioni Unite e avversata dalle forze ribelli tutsi, che imputavano alla Francia di continuare a sostenere il regime hutu per il tramite di un'operazione umanitaria. A inizio luglio, i ribelli arrivarono a controllare la gran parte del Paese: il 4 luglio, l'FPR occupò la capitale Kigali, mentre in molti tra i responsabili del genocidio fuggirono dal Paese.

Se le responsabilità storiche del colonialismo belga e l'introduzione delle divisioni etniche tra hutu, tutsi e twa come strumento di controllo politico appaiono oggi ben evidenti, anche il ruolo della Francia di Mitterrand e del governo di cohabitation presieduto da Edouard Balladur è stato a lungo oggetto di speculazioni. Parigi è stata accusata di aver garantito copertura politica al regime di Habyarimana, di aver addestrato e armato l'esercito rwandese e le milizie hutu e di aver dato appoggio al Gouvernement Intérimaire Rwandais (GIR) costituito in seguito alla morte del Presidente e considerato pienamente responsabile del genocidio. L’accusa, inoltre, è di aver supportato le Forces Armées Rwandaises di fronte all'avanzata dei ribelli dell'FPR, nonché di aver offerto protezione agli autori materiali dei massacri, attraverso la costituzione di una 'zona sicura' al confine con lo Zaire di Mobutu.

Le accuse di complicità con i teorici dell'hutu power e i responsabili del genocidio, a lungo respinte dai governi francesi, hanno compromesso le relazioni tra la Francia e il governo rwandese di Paul Kagame, ex leader dell'FPR. Solo recentemente, Parigi e Kigali hanno intrapreso un processo di riavvicinamento, fondato su parziali ammissioni degli errori politici commessi dalla Francia in Rwanda e sulla – presunta – volontà francese di far luce sulle responsabilità delle classi dirigenti e delle alte sfere dell'esercito. Lo scorso 5 aprile, il Presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato l'apertura degli archivi francesi relativi al periodo compreso tra il 1990 e il 1994 – tra lo scoppio della guerra civile e il genocidio – a beneficio di una commissione di storici, per accertare eventuali omissioni e connivenze francesi. L'esclusione di alcuni tra i maggiori esperti delle vicende rwandesi – giudicati non sufficientemente imparziali – e le resistenze dell'esercito non sembrano, tuttavia, offrire segnali particolarmente incoraggianti circa la reale volontà francese di accertare le verità storiche sul genocidio dei tutsi.

A venticinque anni di distanza, il Rwanda ha cambiato volto. Il governo del Presidente Kagame ha dato impulso politico allo sviluppo del Paese tramite la soppressione delle appartenenze etniche, il potenziamento dei sistemi educativi e sanitari, l'adozione di misure di gender empowerment – più della metà dei membri del Parlamento è costituita da donne, un unicum nel continente africano – e la programmazione di politiche di promozione turistica e tutela ambientale, che ne fanno una delle mete privilegiate in Africa subsahariana. Kigali registra, inoltre, tassi di crescita sostenuti – tra il 7% e il 7,5% –, quote importanti di investimenti esteri e livelli di corruzione tra i più bassi nel continente.

Il rovescio della medaglia è rappresentato dalla natura autoritaria della leadership di Kagame, rieletto nel 2017 con il 98,8% dei consensi. La governance illiberale nel Paese è fatta oggetto di critiche da parte di organizzazioni non governative attive per la tutela dei diritti umani e la promozione della democrazia.

Le cerimonie di commemorazione organizzate a Kigali – e in Francia, grazie all'iniziativa dell'associazione Ibuka, attiva per offrire sostegno ai sopravvissuti e tenere viva la memoria del genocidio – all'insegna del ricordo (kwibuka, "ricordati" in lingua kinyarwanda) e contro ogni tentativo di negazione revisionista, rappresentano un tassello essenziale della 'politica della memoria' adottata da Kagame, strumento di legittimazione internazionale e di consolidamento della stabilità interna.

Nonostante i progressi socio-economici registrati, la sicurezza e una leadership regionale riconosciuta, la riconciliazione nazionale resta oggi un processo in corso, lungo e complesso, che richiede sforzi politici ulteriori da parte della classe dirigente rwandese.

 

Note

[1] Le circostanze della morte del Presidente Habyarimana restano profondamente incerte. L'ipotesi ritenuta oggi più probabile – sostenuta dai giudici francesi Marc Trévidic e Nathalie Poux – è quella che attribuisce agli estremisti hutu, contrari ai negoziati di pace con le forze ribelli tutsi e ostili agli accordi di power sharing firmati ad Arusha, le responsabilità dell'abbattimento dell'aereo su cui viaggiava in compagnia del suo omologo burundese, Cyprien Ntaryamira. Opposta a questa, la ricostruzione secondo cui il missile terra-aria che colpì l'aereo di Habyarimana fu lanciato dai ribelli tutsi dell FPR, agli ordini di Kagame.

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AUTORI

Camillo Casola
ISPI Africa Programme

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