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Dopo il vertice di Pau

Sahel: la Francia rinnova l’impegno contro il terrorismo

Camillo Casola
14 gennaio 2020

Senza particolari sorprese, il vertice del 13 gennaio tra la Francia di Emmanuel Macron e i capi di stato di Ciad, Burkina Faso, Mali, Mauritania e Niger – che insieme formano l’organizzazione G5 Sahel – si è concluso con la conferma dell’impegno comune nella lotta contro il terrorismo in Sahel. Il deterioramento incessante delle condizioni di sicurezza nella regione del Liptako-Gourma – circa quattromila le vittime registrate tra Mali, Niger e Burkina Faso nel solo 2019, per un incremento di cinque volte rispetto ai livelli del 2016 – ha reso evidente l’inefficacia delle iniziative controterroristiche regionali e le debolezze degli apparati di sicurezza statali, aggravando al contempo le pressioni in capo alla Francia. 

La presenza militare francese nella regione risale al 2013, quando l’avanzata verso Sévaré e Mopti dei gruppi armati jihadisti stanziati in nord Mali aveva posto le condizioni di urgenza per un intervento di terra dei contingenti dell’Opération Serval, su richiesta dell’esecutivo di Bamako. Nell’agosto del 2014 Parigi decise la regionalizzazione del dispositivo militare in Sahel, per adattarsi alla minaccia transfrontaliera dell’estremismo violento di marca jihadista. L’Opération Barkhane prevedeva il dispiegamento di 3.500 uomini in un’area desertica e semi-desertica compresa tra la Mauritania e il Ciad. Fondato su un sistema di basi permanenti – a Gao, Niamey, N'Djamena – e temporanee, la logica operativa del dispositivo militare francese prevedeva il controllo di snodi strategici nell’area, al fine di presidiare i confini regionali e limitare la mobilità dei guerriglieri jihadisti, privandoli al contempo del supporto logistico regionale e interrompendo i flussi di approvvigionamento. Il dispiegamento di Barkhane aveva fatto seguito al lancio di un’iniziativa securitaria multilaterale da parte degli stati della regione, che nel febbraio dello stesso anno avevano dato vita a un network – il G5 Sahel – per il coordinamento delle politiche di sicurezza e sviluppo: pilastro della cooperazione securitaria, Barkhane avrebbe supportato la pianificazione di operazioni frontaliere congiunte e l’individuazione di obiettivi strategici, assicurando la fornitura di materiali e assistenza logistica. La creazione di una Joint Force (JF-G5S), formalmente istituita nel 2017, ha risposto poi all’urgenza di approfondire il processo di integrazione regionale sul piano prettamente militare: composta da contingenti militari forniti dagli stati membri, la forza congiunta prevedeva la presenza di 5.000 soldati posti sotto un comando regionale comune, ma difficoltà logistiche, disfunzionamenti gestionali e ristrettezze finanziarie ne abbiano fortemente limitato le capacità operative. 

La moltiplicazione degli attacchi diretti nei confronti delle forze armate nazionali e delle comunità civili da parte dei gruppi affiliati ad al-Qaida (Jama'a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin') e allo Stato islamico (Islamic State in the Greater Sahara) ha messo in luce le fragilità della strategia militare franco-africana di contenimento dell’estremismo jihadista. L’incidente che il 25 novembre 2019 ha visto coinvolti due elicotteri francesi impegnati in operazioni di supporto alle forze sul terreno, nel corso di una missione di controterrorismo nel centro del Mali, ha contribuito ad accelerare la decisione di Macron di aprire una riflessione sulle ragioni, sulla natura e sugli obiettivi dell’operazione militare in Sahel. La morte di tredici militari francesi ha amplificato, agli occhi dell’opinione pubblica, la gravosità dell’impegno militare nella regione e l’importanza sempre maggiore del tributo di vite pagato dalla Francia nel conflitto. Con metodi e toni ritenuti da molti espressione di un paternalismo neocoloniale – il capo di stato burkinabé, Roch Marc Christian Kaboré, ha parlato eufemisticamente della “mancanza di tatto”, nella forma e nei contenuti, da parte di Macron – il presidente francese ha “convocato”, letteralmente, i capi di stato del G5 Sahel nella cittadina sud-occidentale francese di Pau, al fine di ridefinire gli indirizzi della missione e ottenere dai partner africani una rinnovata conferma della volontà politica di lottare contro i gruppi terroristici nella regione. 

Originariamente previsto a dicembre, e posticipato in seguito alla morte di 71 militari nigerini a In-Atès, il vertice di Pau è stato anticipato da un summit tra i paesi del G5S, in occasione del quale i governi hanno delineato una posizione comune sulle strategie da adottare per rispondere alle minacce che pesano sulla sicurezza e la stabilità regionali: garantire l’erogazione di servizi sociali alle comunità locali e rafforzare la presenza dello stato nelle aree “fragili”; coordinare le politiche regionali e gli interventi strategici; rafforzare i dispositivi di intelligence e la cooperazione securitaria per arginare i crimini transnazionali, i traffici illeciti e le attività di estrazione illegale dell’oro, tra le principali fonti di finanziamento dei gruppi armati; sollecitare la comunità internazionale per l’adozione di un nuovo “Piano Marshall” in Sahel, allo scopo di contrastare le cause di povertà; accelerare il dispiegamento della forza congiunta; reindirizzare le attività militari principalmente nella zona centrale, il Liptako-Gourma. 

A definire l’ordine delle priorità politiche di Parigi, la necessità di conferire nuova legittimità alla presenza della Francia in Sahel, in una fase di crescente ostilità anti-francese da parte delle comunità locali e di alcuni ambienti politici. Le accuse di inefficacia della missione militare Barkhane, di ingerenza neocoloniale e, agli estremi, di compiacenza delle forze francesi con i gruppi jihadisti, hanno alimentato l’avversione delle popolazioni saheliane nei confronti della Francia. In tal senso, il riferimento alle “ambiguità” di alcuni stati nella lotta al terrorismo, di cui le autorità francesi hanno fatto menzione, è legato alla scarsa fermezza con cui i governi starebbero contrastando i messaggi anti-francesi sempre più diffusi, ad esempio, in Mali e Burkina Faso. E d’altronde, la ministra della Difesa Florence Parly aveva già dato prova delle irritazioni di Parigi sul tema, chiedendo che gli stati saheliani precisassero chiaramente la propria posizione a proposito della presenza francese nella regione e condannassero le manifestazioni di ostilità nei confronti della Francia. 

Dunque, il summit franco-saheliano è servito a Macron in primis a ottenere dai suoi omologhi saheliani il riconoscimento della centralità della presenza francese, a tutela di un interesse generale a contrastare il terrorismo jihadista nella regione. Lo stesso presidente francese, nel corso della conferenza stampa congiunta, ha tenuto a sottolineare come la Francia sia presente in Sahel per “due ragioni: la prima è la lotta contro il terrorismo. Siamo in guerra contro dei gruppi armati terroristici […] perché sappiamo che la loro è una minaccia che non resta mai soltanto locale, come dimostra il collegamento con ciò che avviene in Libia e nel Lago Ciad. E, in secondo luogo, siamo in Sahel per consentire agli stati saheliani di […] affermare la propria sovranità”. Macron ha inteso, in tal modo, lanciare un duplice segnale: agli stati del G5 Sahel, chiamati ad agire con maggiore vigore sul piano militare e a contrastare le spinte anti-francesi interne, e ai partner europei, mettendoli in guardia rispetto ai rischi di regionalizzazione e globalizzazione della minaccia jihadista. 

Il vertice di Pau ha deliberato l’istituzione di un comando congiunto tra la forza Barkhane e la forza congiunta del G5 Sahel, chiamato a orientare gli sforzi militari nella regione delle tre frontiere. Lo Stato islamico nel Grande Sahara (ISGS) è stato individuato esplicitamente come obiettivo prioritario delle misure di contro-terrorismo della coalizione: pur in assenza di una precisa indicazione della volontà politica di dialogare con alcuni degli attori armati attivi nella regione, il riferimento pressoché esclusivo ai gruppi legati allo Stato islamico sembrerebbe lasciare aperto uno spazio di negoziazione con gli altri attori armati nella regione e con i gruppi affiliati ad al-Qaida, come d’altra parte sollecitato tra le raccomandazioni conclusive dell’iniziativa di “Dialogo politico inclusivo”tenutasi in Mali a fine 2019.

Il summit ha confermato l’istituzione di una divisione speciale di forze europee, la task force Takuba – il cui annuncio da parte francese, a novembre, aveva però visto i principali stakeholder europei reagire con molte esitazioni – con mandato operativo di addestrare e assistere le forze saheliane nella lotta contro i gruppi armati jihadisti, al fine di “limitare la minaccia terroristica e assicurare un migliore controllo delle frontiere”. L’Eliseo ha assicurato, inoltre, l’integrazione di 220 unità militari al dispositivo Barkhane, attualmente composto di 4.500 uomini.

Accanto a quelle militari, le disposizioni relative al rafforzamento delle capacità degli stati nella regione, al ripristino dell’autorità statale sull’insieme dei territori e allo sviluppo delle aree saheliane costituiscono i pilastri su cui il quadro operativo della cooperazione tra Francia, G5 Sahel e partner europei – la coalizione Sahel – dovrà fondarsi, secondo quanto deciso nel corso del summit. Resta da capire quanto l’auspicata svolta politica possa effettivamente tradursi in un cambio di passo per le forze in campo.

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AUTORI

Camillo Casola
ISPI Associate Research Fellow

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