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DATAGLOBE

Sanzioni sul petrolio da maneggiare con cautela

Matteo Villa
06 maggio 2022

 

In queste ore si susseguono le notizie sul possibile embargo UE del petrolio russo. Sembra dietro l’angolo, ma è ancora possibile che non si faccia – tanto che mercoledì si erano diffuse voci che volevano l’Ungheria pronta a porre il veto (ipotesi al momento più lontana). Nel caso alla fine si faccia, dovremo capire a quale velocità, e come si sceglierà di salvaguardare le esigenze di chi ne sarebbe maggiormente penalizzato.

 

Alcuni Paesi frenano

Se l’Ungheria protesta per ragioni principalmente politiche, data la vicinanza di Orbán e Putin, altri Paesi avanzano ragioni più “tecniche” ed economiche. In Germania e Slovacchia ci sono tre raffinerie che dipendono completamente dalle importazioni di petrolio russo, attraverso due diramazioni differenti dell’oleodotto Druzhba (“Amicizia”). La Germania ha già ridotto di due terzi le sue importazioni di greggio russo, dal 35% al 12%, ma non potrebbe scendere oltre senza mettere a repentaglio il funzionamento di sue due raffinerie (a Schwedt e a Leuna). Secondo i calcoli del governo slovacco, invece, occorrerebbero almeno tre anni per rendere verosimile uno sganciamento dal petrolio russo della raffineria di Bratislava. Dal canto loro, anche Polonia e Ungheria hanno due raffinerie collegate a Druzhba: in teoria i due Paesi dispongono però di oleodotti alternativi, che potrebbero ovviare rapidamente a un ammanco di petrolio russo. Ci sono infine Grecia, Malta e Cipro, che hanno dubbi sulla proposta della Commissione di vietare alle petroliere europee di trasportare petrolio russo, anche verso Paesi non UE.

 

Embargo europeo: tre scenari

Al netto di queste riserve, che potrebbero essere risolte in sede negoziale, in pochi si sono chiesti quali potrebbero essere gli effetti di un embargo europeo di petrolio greggio e prodotti derivati (benzina, gasolio, ecc.) dalla Russia, sull’Europa e sul Cremlino. Proviamo a farlo noi. La risposta è che l’embargo sul petrolio russo va pianificato con cura e deve essere molto graduale. I Paesi europei dovrebbero essere sempre pronti ad aggiustare le tempistiche, e forse persino le quantità, in sede negoziale per evitare di farsi più male di quanto se ne possa fare Mosca.

Nel 2021, la Russia ha esportato circa 7,5 milioni di barili al giorno (mbg) di petrolio, tra greggio e prodotti derivati. Di questi, l’UE ha importato 2,2 mbg di greggio e 1,2 mbg di prodotti derivati: sostanzialmente il 45% di tutte le esportazioni di petrolio russe, di gran lunga il maggior acquirente. Nel periodo successivo all’invasione, pur in assenza di sanzioni formali sul petrolio russo, molte compagnie di trading e importatori europei hanno cominciato ad acquistare sempre meno petrolio di provenienza russa. La IEA stima che, a inizio aprile, questo avesse costretto la Russia a ridurre le esportazioni di circa 0,7 mbg (il 9% del totale), e che entro fine aprile questa riduzione sarebbe aumentata fino a 1,5 mbg (il 20%). Al contempo, gli esportatori russi sono costretti a vendere il petrolio a forte sconto sui mercati: attualmente il prezzo del contratto Urals è inferiore a quello del Brent di 36 dollari al barile. Tuttavia, ovviamente la mancanza di petrolio russo dai mercati internazionali spinge verso l’alto i prezzi del Brent stesso, che ieri facevano segnare 109 dollari al barile, trascinando verso l’alto anche i prezzi di Urals (seppure a grande distanza).

Per capire cosa potrebbe succedere in caso di sanzioni, ripartiamo dal presente. Come raccontato due settimane fa, mettendo insieme i dati è possibile calcolare che il costo diretto delle auto-sanzioni sia al momento di circa 150 dollari l’anno per un cittadino europeo, e di 570 dollari l’anno per un cittadino russo. Nel grafico qui sopra abbiamo riportato questi due valori nello scenario “oggi”. Insomma, le auto-sanzioni stanno già provocando un forte danno alla Russia; un danno superiore di quattro volte rispetto a quello arrecato ai cittadini europei. Se consideriamo il fatto che i cittadini russi dispongono già oggi di un Pil pro capite nettamente inferiore alla media europea, il danno in proporzione al loro reddito è per loro ancora più elevato: -5% per i russi, -0,4% per gli europei. Una situazione “ottima” dal punto di vista della logica delle sanzioni, che dovrebbero sempre puntare a massimizzare il danno economico per il proprio avversario, minimizzando il contraccolpo subìto da chi quelle sanzioni le impone.

Se questa è la situazione a oggi, cosa potrebbe succedere con un embargo europeo? Il grafico qui sopra cerca di mostrare le possibili conseguenze, utilizzando tre scenari stilizzati ma realistici, partendo dalle tre variabili di cui abbiamo già parlato: il prezzo del barile di petrolio Brent, lo sconto applicato dal mercato al petrolio russo Urals in caso di vendita, e la mancata vendita di petrolio russo malgrado quello sconto.

Per lo scenario “best case”, supponiamo che il Brent non acquisti ulteriormente quota (110 $/barile), che lo sconto di Urals resti simile a quello odierno (35 $/barile) e che l’ammanco di esportazioni russe salga a 3 mbg. In questo caso, le perdite per la Russia si farebbero ancora più consistenti: quasi 810 dollari, il 7% del reddito medio russo. A fronte di ciò, gli europei ci perderebbero poco o nulla: i costi resterebbero quasi invariati, allo 0,4% del nostro reddito pro capite annuo.

Le cose cominciano a farsi più complicate già in quello che abbiamo chiamato “bad case”: Brent a 140 dollari/barile, spread a 30 dollari/barile e ammanco di 2 mbg di esportazioni russe. In questo caso, le perdite per la Russia si riducono già molto, mentre quelle degli europei si ampliano sino ad arrivare a livelli quasi tripli rispetto a quelle russe. Le cose non vanno così male se si rapportano le perdite assolute al reddito pro capite: per entrambi i Paesi si tratterebbe di un colpo vicino all’1% del Pil. Tuttavia, inizia a scricchiolare la ratio economica delle sanzioni: l’avversario viene colpito in maniera praticamente identica al sanzionatore, e oltretutto ci guadagna molto rispetto all’effetto delle auto-sanzioni odierne.

Infine, nel “worst case scenario” le cose si metterebbero malissimo. In questo caso, immaginiamo un Brent a 170 dollari/barile, uno spread di 15 dollari/barile, e un ammanco di 1,5 mbg. Come è possibile vedere dal grafico, la situazione diventa drammatica. Non solo adesso il costo per ciascun cittadino europeo si avvicina ai 700 dollari a testa, ma la Russia è addirittura in forte attivo. A causa delle sanzioni europee, insomma, pur vendendo meno petrolio rispetto al periodo pre-crisi Mosca raggiungerebbe due obiettivi in un colpo solo: aumentare le proprie entrate rispetto al periodo pre-crisi, e colpire duramente i cittadini europei.

 

La prudenza è d’obbligo

Ecco perché sul petrolio lo strumento sanzioni va maneggiato con cura. Al momento, con le auto-sanzioni, siamo già vicini al massimo danno che possiamo infliggere al Cremlino con il minimo danno inferto ai governi europei. È possibile che sanzioni oculate, graduali e prudenti approfondiscano ulteriormente questo divario. Ma basta poco, una differenza di poche decine di dollari al barile e una capacità di aggirare le sanzioni leggermente superiore da parte russa, per cominciare a compromettere questo risultato. O, addirittura, per ribaltarlo del tutto, rendendo il periodo post-embargo una “pacchia” per la Russia, mentre i cittadini europei soffrirebbero costi ingenti. Sanzioni sul petrolio russo sono inevitabili, quantomeno per cercare di “congelare” la situazione attuale di grandi perdite per Mosca. Ma dovrebbero essere prudenti, graduali, e opportunistiche. L’obiettivo non deve essere quello di non importare più neppure una goccia di petrolio da Mosca; quanto quello di ridurre il più possibile entrate che, almeno in parte, finanziano l’economia di guerra russa.

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ISPI e Università Ca' Foscari

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economia geoeoconomia Crisi Russia Ucraina
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AUTORI

Matteo Villa
ISPI

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