Ankara sta giocando col fuoco. Il più grave scandalo per corruzione degli ultimi anni e il coincidente annuncio del tapering (meno 10 miliardi di dollari di acquisti di bond al mese) annunciati a dicembre dalla Federal Reserve (Fed), sotto la guida di Janet Yallen, stanno minando alle fondamenta il miracolo economico sul Bosforo.
Un tumultuoso processo di crescita che dura da dieci anni e che ha triplicato il Pil pro capite portandolo da 3.500 dollari nel 2002 a oltre 10mila dollari nel 2012. La Turchia, che in un decennio è cresciuta a ritmi cinesi, è diventata la 16° economia al mondo ed entro il 2023 vuole raggiungere il decimo posto. Ne ha tutte le potenzialità: la dimensione di 76 milioni di abitanti in maggioranza giovani, lo status di potenza regionale, le alleanze internazionali che ne hanno fatto il baluardo dell’Occidente prima contro l’Unione sovietica e oggi contro l’estremismo islamista.
Il tapering della Fed vuol dire meno denaro nel sistema finanziario internazionale e quindi meno fondi per le economie emergenti. La Turchia è stata una delle maggiori beneficiarie dei programmi di stimolo Usa. La lira turca, acuto sismografo del sentimento dei mercati, è scesa al suo minimo storico, proprio dopo che la Federal Reserve americana ha annunciato un ammorbidimento della politica monetaria espansiva e mentre il governo di Recep Tayyip Erdoğan stava affrontando una delle maggiori crisi legate all’inchiesta per corruzione, la più grave del suo premierato arrivato al terzo mandato. Tre ministri si sono dimessi perché sospettati di aver facilitato operazioni di modifiche d’uso di terreni che dovevano essere tutelati.
La situazione politica è critica in quanto nella battaglia tra il predicatore islamico Fethullah Gülen e Erdoğan, un tempo alleati e ora nemici, la Turchia rischia molto essendo dipendente dai flussi di denaro stranieri per finanziare il suo ampio deficit delle partite correnti, oggi al 7,5% del Pil. Basta un cambio di umore dei fondi stranieri e i rendimenti dei bond, oggi al 10%, possono schizzare alle stelle facendo alzare il costo del debito.
Il crollo della lira ha spinto nelle scorse settimane la Banca centrale turca ad effettuare un massiccio intervento di sostegno alla moneta vendendo 400 milioni di dollari delle sue riserve di valuta – circa 140 miliardi complessivi – per calmierare i prezzi. Il 10 giugno 2013 la stessa banca aveva venduto 650 milioni di dollari per fermare il calo della lira dopo le proteste di Gezi Park. Ma sono solo palliativi quando c’è incertezza politica e pericolo di fuga di capitali verso lidi più remunerativi e sicuri. La Banca centrale dovrebbe alzare i tassi di interesse ma il Governo si oppone a un inasprimento della politica monetaria in vista delle amministrative di marzo, test molto importante sulla reale popolarità di Erdoğan che vorrebbe correre per diventare presidente della Repubblica nelle elezioni di agosto.
Gli stessi risparmiatori turchi hanno aumentato di 20 miliardi di dollari i depositi in valuta estera nella seconda metà dello scorso anno vendendo lire per timore degli effetti dello scandalo per corruzione sulla tenuta della moneta. Secondo i dati della Banca centrale turca del 27 dicembre 2013, infatti, i depositi bancari detenuti in conti in valuta estera sono saliti a 119,3 miliardi di dollari, mentre il 6 gennaio la lira ha toccato i minimi storici sul dollaro di 2,1948 lire. Una dêblacle per un paese che importa tutta l’energia necessaria in dollari e che quindi paga già una bolletta energetica salata.
Con la crisi politica in corso, la Turchia si troverà quindi in prima fila nel subire gli effetti negativi del cambio di rotta dei flussi finanziari che colpirà tutti i mercati emergenti. Una mossa pericolosa ed è inutile gridare al complotto internazionale: i problemi sono tutti interni.