Passare da una “dipendenza” all’altra? In questo periodo se ne sta discutendo soprattutto a livello energetico, con riferimento ai (notevoli) sforzi europei per rendersi autonomi dalle forniture di gas provenienti dalla Russia, e che però comportano di affidarsi ad altri venditori (dagli Stati Uniti al Qatar, passando per l’Algeria). Tuttavia, ragionamenti di questo tipo riguardano anche scelte di politica economica più radicali, coinvolgendo anche scelte cruciali in ambito di politica industriale e commerciale. Il riferimento è alla Germania, per un viaggio internazionale del cancelliere Olaf Scholz che sta facendo molto discutere.
Il successore di Angela Merkel è infatti in Cina ed è il primo leader europeo e del G7 ad essere ricevuto a Pechino dallo scoppio della pandemia. Scholz ha ricevuto parecchie critiche perché, dopo che la Germania si sta affrancando da quello che era diventato un legame a doppio filo con la Russia (e solo il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 ha spento definitivamente ogni possibile tentazione di tornare indietro), sono diffusi i timori sulla possibilità che Berlino si abbandoni nell’abbraccio (ancora non si sa se mortale o vantaggioso) di Pechino. Queste preoccupazioni sono fondate? Quali sono le possibili conseguenze delle scelte della Germania per il resto d’Europa e, ancora più in generale, per il futuro della globalizzazione di cui tanto si sta parlando da alcuni mesi a questa parte?
Germania, asse portante della globalizzazione
Si può dire che negli ultimi decenni la Germania sia stata “croce e delizia” per il resto dell’economia europea. Da “malato d’Europa” all’inizio degli anni Duemila – anche a causa degli altissimi costi economici e sociali della riunificazione – Berlino si è trasformata invece nella “locomotiva” economica del continente grazie a un modello di crescita fortemente votato all’export e all’inserimento del settore manifatturiero tedesco nelle catene del valore globali. Le esportazioni di beni e servizi equivalgono a circa il 47% del Pil, facendo della Germania il terzo esportatore mondiale in termini assoluti e il primo in alcuni settori specifici (come ad esempio l’automotive). La notevole esposizione dell’economia tedesca verso il settore esterno è dimostrata anche dal costante saldo positivo nella bilancia dei pagamenti, attualmente a circa il 7% del Pil e il secondo valore più grande a livello mondiale dopo la Cina. Un surplus così grande che non è indice solamente di virtù, ma anche di una situazione di squilibrio nell’ambito di un’economia integrata e di un’unione monetaria come quella dell’eurozona: infatti, l’avanzo in eccesso nelle partite correnti nasconde un deficit di investimenti ma ha anche contribuito a penalizzare le esportazioni e l’occupazione negli altri Paesi dell’eurozona, oltre a costringerli indirettamente a ricorrere a un maggiore indebitamento.
Inoltre, la Germania è un anello fondamentale nell’ambito dell’architettura della globalizzazione economica organizzata lungo le Global Value Chains (GVCs): è il soggetto che detiene – in termini assoluti – il valore più alto di commercio “indiretto” con il resto del mondo, e si è ormai affermata solidamente come hub sia a livello produttivo che commerciale per il resto d’Europa, con un ruolo paragonabile a quello di Stati Uniti, Cina e Giappone. Questi dati servono essenzialmente a dimostrare che, considerando l’elevata integrazione produttiva della Germania con il resto d’Europa (e dei Paesi europei con il resto del mondo, proprio attraverso la Germania), le scelte future di Berlino avranno un peso fondamentale nell’orientare le scelte delle economie europee più piccole (a cominciare dall’Italia, per cui Berlino è proprio il primo partner commerciale).
Missione Cina: quali gli obiettivi di Scholz?
Le polemiche per la visita di Scholz (che si trova in Cina con una delegazione di 12 amministratori delegati dei campioni dell’industria tedesca) sono state anticipate nei giorni scorsi dall’acquisizione da parte di COSCO del 24,9% di uno dei tre terminal logistici del porto di Amburgo (quota significativa ma non decisiva poiché appena sotto al 25%). Per rispondere a tali critiche il Cancelliere stesso ha pubblicato un editoriale sulla "Frankfurter Allgemeine Zeitung" e su "Politico" per spiegare e giustificare il suo viaggio. Il messaggio di fondo è chiaro: la Cina conta e non possiamo permetterci di farne a meno. Tuttavia, riconosce come le obiezioni avanzate sul rischio di eccessiva dipendenza da un solo Paese siano fondate e che sia necessario ridurle anche se la Germania non può ancora permettersi di staccarsi dalla Cina.
Il successo economico della Germania degli ultimi vent’anni, infatti, è dipeso molto dalla crescita dell’export verso la Cina, soprattutto nel periodo 2005-2012 con un’accelerazione nel 2011-2012. In questi anni il peso dell’export tedesco verso la Cina sul Pil è passato da circa lo 0,5% all’1,6% nel periodo 2005-2009 e un ulteriore punto percentuale abbondante nel triennio successivo. Se la prima fase corrisponde all’ascesa cinese post-ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001, la seconda coincide con lo stimolo economico pensato per compensare gli effetti della crisi finanziaria globale. Da allora, tuttavia, il rapporto tra l’export tedesco verso la Cina e il Pil della Germania è rimasto stabile, segno non solo del graduale rallentamento economico di Pechino, ma di un cambio di paradigma.
Addirittura, nel 2021 si è registrato un sorpasso dell’export cinese verso la Germania – in termini di peso sul Pil – sull’import sulla stessa rotta. Si tratta di un dato particolarmente interessante perché la Germania è stata, negli ultimi anni, uno degli unici Paesi a registrare un surplus commerciale consistente con la Cina. Questo dato si riflette anche nei valori dell’interscambio di auto tra la Cina e l’Unione Europea, uno dei settori dai quali le aziende tedesche – così come la loro filiera – hanno ottenuto le maggiori soddisfazioni e che rappresenta la maggiore voce di export europeo verso la Cina. Il surplus commerciale europeo in questo settore è andato riducendosi nell’ultimo biennio. Inoltre, se si considera soltanto il comparto delle auto elettriche, è la Cina in surplus con l’Europa, una tendenza che potrebbe ulteriormente rafforzarsi al crescere nel mercato europeo dell’auto della quota di veicoli elettrici.
Polemiche in patria
Il viaggio di Scholz per consolidare le relazioni commerciali in un’epoca di esplicita competizione con la Cina da parte degli Stati Uniti non deve solo scontrarsi con riserve di tipo politico anche fra i suoi principali alleati di governo, ovvero i Verdi. Il rilancio delle relazioni commerciali tra Germania e Cina, infatti, deve considerare anche l’evoluzione dei rapporti tra le due economie, con la Cina che non è più semplicemente la “fabbrica del mondo”, soprattutto di prodotti a basso valore aggiunto, ma nemmeno un mercato dalle potenzialità quasi infinite. In questo senso sono di grande significato le parole di Joerg Wuttke – il Presidente della Camera di Commercio Europea in Cina e, dal 1997, il Chief Representative in Cina della azienda chimica BASF – ovvero che “la Cina non è un grande mercato, ma un’immensa economia con un piccolo mercato accessibile”. Negli ultimi anni Wuttke, che tradizionalmente è stato una figura aperta alla Cina, ha più volte denunciato la torsione ideologica di Pechino, potendo permettersi in funzione del suo ruolo critiche che altri non hanno potuto fare. Le sue parole acquistano valore anche perché il settore chimico tedesco è, insieme all’automotive, quello più legato all’economia cinese. Inoltre, la stessa BASF ha comunque dato vita ad un progetto che mira ad investire 10 miliardi di euro da qui al 2030 per realizzare un nuovo impianto in Cina che è stato inaugurato a settembre. Inoltre, nella prima metà dell’anno i flussi di investimenti tedeschi in Cina hanno raggiunto il livello record di 10 miliardi di euro, mentre altri investimenti sono già stati promessi nel campo dell’automotive e della ricerca applicata: ad esempio, la società del gruppo Bosch che si occupa di venture capital ha annunciato la creazione di un fondo di 250 milioni di euro per sostenere start-up cinesi in settori manifatturieri ad alto potenziale innovativo.
Insomma, tutti segnali che non farebbero pensare ad un disimpegno tedesco dal mercato cinese ma che devono fare i conti con l’esigenza di ridurre l’esposizione, anche se al minor costo. La mai risolta questione della reciprocità sarà al centro delle discussioni e, in quanto possibilità di apertura del mercato cinese all’Europa, rappresenta la principale leva cinese per convincere l’Europa a non adottare le misure competitive che stanno adottando gli Stati Uniti.
I rapporti con gli altri: tra Europa e Stati Uniti
Questa partita, in ogni caso, non ha solo due giocatori – Germania e Cina – ma è molto più ampia e la posta in gioco è altissima, dato che il risultato finale determinerà il futuro della globalizzazione. Se da un lato Berlino sembra avere la tentazione di fare da sola (non solo nel caso dei rapporti con Pechino, ma per esempio anche con la decisione di stanziare 200 miliardi di euro contro il caro-energia), dall’altro lato non può evitare di fare i conti con altri partner economici chiave, dentro e fuori dall’Europa. La relazione commerciale con gli Stati Uniti resta fondamentale e lo sarà ancora di più alla luce della competizione a tre blocchi che si sta profilando per la leadership tecnologica globale.
Ecco perché Scholz, nonostante i rapporti non certo idilliaci con Emmanuel Macron (soprattutto per le divisioni tra Francia e Germania sull’eventuale adozione di un price cap sul gas russo), si è recato recentemente a Parigi per discutere anche l’adozione di una posizione comune nei confronti degli USA. L’attivismo dell’amministrazione Biden in tema di politica commerciale ha infatti sollevato un campanello d’allarme non solo in Cina (a causa delle pesanti restrizioni all’export di semiconduttori) ma anche nella UE, dal momento che le misure inserite nell’Inflation Reduction Act prevedono una serie di incentivi dal sapore protezionistico in quanto tese a privilegiare l’acquisto di prodotti made in America rispetto a quelli prodotti da aziende europee. È dunque al fine di conservare i benefici consolidati tramite l’applicazione del proprio modello export led che Berlino ha interesse a mantenere aperti anche i canali di sbocco verso il mercato statunitense.
Un quadro sempre più complesso
In vista di sapere cosa accadrà a Pechino tra Scholz e Xi, quello che si profila è uno scontro commerciale sempre più definito fra USA e Cina, con l’UE in mezzo in quanto anello più debole dal punto di vista della forza geoeconomica. Da un lato, l’amministrazione Biden è decisa a “disinnescare” la potenza tecnologica della Cina, e nel contempo a tirare l’Europa dalla propria parte: vanno letti in questo senso i tentativi di mediazione di Katherine Tai, che si è recata a Praga per partecipare alla riunione dei ministri del Commercio UE, e sarà importante anche la terza riunione del Trade and Technology Council programmata per dicembre. Dall’altra, la Cina resta per la Germania e l’UE un partner di cui oggi non si può fare a meno; guardato certamente con maggiore cautela che in passato (le “sirene” della Nuova Via della Seta sono meno attraenti di come potevano apparire alcuni anni fa), ma irrinunciabile per una potenza economica come Berlino che proprio grazie alla globalizzazione ha raggiunto un ruolo da leader.